Alcune “pignolerie” su Colei che nacque senza peccato originale per diventare tempio di Dio
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di Ruggero Sangalli*
Anche molti cattolici confondono l’Immacolata Concezione di Maria con il fatto che Ella concepì verginalmente Gesù, senza “conoscere uomo”. In realtà il dogma mariano sancito nel 1854 da Papa Pio IX fissando la festa dell’8 dicembre si riferisce al fatto che Maria fu concepita lei stessa priva del Peccato Originale. Non è qui il caso di sviscerare come Gioacchino e Anna (nomi dei genitori di Maria secondo il Protoevangelo di Giacomo) poterono vivere l’accaduto, ma può essere interessante ricostruire la tempistica degli eventi, per scoprirla incredibilmente attraversata da circostanze misteriose e non prive di fascino per chi non sottovaluta il modo in cui Dio si rivela all’uomo.
Diamo per scontato che chi legge abbia chiaro che cosa sia il peccato originale, sottraendosi a semplificazioni ortofrutticole e a svilimenti o ossessioni sul ruolo della sessualità umana. E’ un fatto che Dio, prendendo carne umana, non potesse ricevere (è biologia, fisiologia, genetica) ciò che la carne aveva ereditato dal peccato di origine in Adamo. E formandosi in un grembo di donna, creatura umana, la sua mamma fu predisposta ad avere una carne degna di chi vi si stava sviluppando per venire alla luce, sancendone l’unicità e l’esclusività nella normalità apparente in cui si manifestava. Il Peccato Originale non è comunque solo un’idea: segna la natura, come una malattia genetica.
Una ragazza madre
“bianca come la neve”
Torniamo allora a Maria, colei che è stata concepita, come embrione (si è vivi e vita ancora nel grembo materno) priva del Peccato Originale.
Faccio largamente riferimento a un mio precedente scritto apparso nel 2011 su La Bussola Quotidiana.
Gli studiosi degli usi e dei costumi dei tempi di Gesù hanno stabilito che le ragazze (non solo tra gli Ebrei) venivano promesse spose dopo il compimento dei 14 anni. Maria, da qualche mese promessa sposa di San Giuseppe ma che non abitava ancora con lui, all’annuncio della sua maternità verginale aveva già compiuto i 14 anni e quando nacque il bimbo, nove mesi più tardi, aveva compiuto i suoi 15 anni.
Ho formulato l’ipotesi, supportata da numerosi indizi e sostenuta dagli scritti degli storici antichi, che Gesù sia nato nel 2 a.C. (sul finire dell’anno): Maria già quindicenne doveva essere nata nel 17 a.C: il suo concepimento, di nove mesi anteriore, è sul finire del 18 a.C.
Un cenno cronologico del vangelo (Gv 2,19-23) ben si attaglia ad essere accostato alla ricostruzione del tempio, la casa dove farvi abitare Dio. Infatti, quando all’inizio del 31 d.C. – prima delle “tre pasque” citate nel vangelo di Giovanni e sapendo, per l’astronomia, certamente avvenuta la pasqua decisiva nel 33 d.C. – vengono attribuiti 46 anni di esistenza al tempio, dunque anche Maria aveva compiuto quell’età!
La “fotografia” della Morenita
La Morenita
Alcune tradizioni orientali parlano dell’Immacolata Concezione di Maria fin dal sesto secolo. Negli anni immediatamente successivi al prodigio della Santa Casa di Loreto (dicembre del 1294) il francescano Giovanni Duns Scoto, nel 1308, alla Sorbona di Parigi, elaborò la celebre spiegazione della razionalità teologica dell’Immacolata Concezione di Maria: Cristo è redentore di tutti, quindi anche di Maria, ma Lei prima della nascita, e in ogni caso sempre a motivo di Cristo stesso, che l’avrà per madre…
Nei secoli la tradizione e la devozione popolare si sono consolidate e l’Immacolata diventa festa del calendario romano dal 1476. Dopo che nel 1517 prende avvio la “riforma” dell’eresiarca Lutero, nel dicembre del 1531 in Messico c’è il miracolo di Guadalupe (si festeggia il 12 dicembre). Le più moderne tecnologie hanno permesso di scorgere negli occhi dell’immagine venerata a Città del Messico la “fotografia” dell’istante in cui sulla tilma è comparsa la figura che non risulta dipinta (una “sindone mariana”). Nel linguaggio dei nativi (il nahuatl) la parola coatlaxopeuh, da cui deriva Guadalupe, significa “colei che calpesta il serpente”. La Madonna morenita ha la luna sotto i piedi. E’ rappresentata come una donna in dolce attesa. Le stelle attorno alla vergine corrispondono perfettamente alle costellazioni presenti nel cielo del Messico nel solstizio di inverno: il 1531 precede la riforma gregoriana e il solstizio era in anticipo di 10 giorni rispetto al 21/12, particolare, questo, davvero impressionante.
La malattia “fisica” del Peccato Originale
Nel 1570 Pio V pubblica il nuovo ufficio per la festa dell’Immacolata. Nel 1708 Clemente XI estende la festa, divenuta d’obbligo, a tutta la cristianità. Seguono gli anni illuministi e della Rivoluzione Francese. La Chiesa è perseguitata. Nel 1830 c’è un’apparizione mariana proprio a Parigi, a Rue du Bac. Poi nel 1854 il dogma dell’Immacolata e nel 1858 a Lourdes la Madonna dice di essere l’Immacolata Concezione – in effetti, ci sono fonti che affermano che Bernadette Soubirous indossasse una medaglia della Rue du Bac. L’Immacolata Concezione non è dunque un dogma calato dall’alto, ma è il frutto di un secolare avvicinamento, segnato da eventi molto “strani”. E’ una memoria decisiva per la redenzione, totalmente intrinseca all’incarnazione di Gesù. Il peccato originale è soprattutto una reale catastrofe dell’umanità: non solo morale, ma “incarnata nella specie”. Una malattia dalla quale può salvare solo il Medico divino: siamo malati e abbiamo bisogno guarire.
Se il progresso teologico è stato disseminato di eventi significativi, non meno interessanti sono le verifiche che un curioso può scoprire nelle pieghe della Rivelazione e leggendo il Vangelo… operazione paradossalmente indigesta a molti paladini della “mensa della Parola”.
Nata il 5 agosto del 17 a.c., morta a 63 anni
Andrea Mantegna, Lamentazioni sul Cristo morto, dettaglio
Tra la fine del 18 a.C., epoca dell’Immacolata Concezione di Maria, e l’inizio della primavera del 33 d.C., data della Redenzione operata da Cristo crocifisso e risorto, trascorsero 49 anni e qualche mese, ovvero un giubileo: nel cinquantesimo anno Dio libera l’umanità schiava del peccato. L’anno della misericordia!
Curioso è sapere che questa deduzione, non priva di suggestivi sviluppi, ha avuto un’indiretta conferma dagli scritti di Clemens Brentano, il poeta che riferì le visioni di suor Caterina Emmerick. Possiamo riassumere le citazioni storico-geografiche scritte nel libro Vita della santa vergine Maria:
1) Maria visse 63 anni meno 23 giorni.
2) dopo la pasqua di Gesù, ella visse circa 3 anni a Gerusalemme, poi 3 a Betania e 9 a Efeso.
3) dopo 3 anni a Efeso, Maria tornò una prima volta a Gerusalemme. Ci ritornò solo un’altra volta, diciotto mesi prima dell’assunzione; non morì a Gerusalemme.
4) visse altri 14 anni e due mesi dopo l’ascensione del Signore.
5) spirò alla stessa ora di Gesù (le 3 del pomeriggio) e fu sepolta, ma il suo corpo presto scomparve
6) Maria rimase incinta di Gesù poco più che 14enne.
Utilizzando queste informazioni incrociate con quelle di altre fonti precedenti e successive all’epoca in cui visse suor Emmerick vediamo che: la data della pasqua cristiana è quella della notte tra sabato 2 e domenica 3 aprile del 33, corrispondente ad un 14 nisan in venerdì. L’anno 33 calza a pennello con la profezia di Daniele delle 70 settimane di anni, computate a partire dalla missione di Esdra nel 458 a.C. Quattordici anni e due mesi dopo l’ascensione significa andare dal 3 aprile (resurrezione) del 33 d.C. al 12 maggio (quarantesimo giorno) e quindi, 14 anni e 2 mesi dopo, a metà luglio del 47 d.C.. Da notare che suor Caterina precisa che il periodo in cui la Chiesa festeggia l’assunzione è quello giusto, ma il mese dipende dall’anno: non è così criptico, poiché nel calendario lunare le feste non hanno un giorno fisso, come constatiamo per la data della pasqua.
Retrocedendo di 63 anni (meno i 23 giorni) arriviamo alla data di nascita di Maria: è il 5 agosto del 17 a.C.: una domenica! Un calcolo siffatto si è reso evidente soltanto diciotto secoli dopo i fatti accaduti e solo grazie alle apparizioni ad una veggente e solo se qualcuno prende in considerazione la Madonna. Un cristiano che non guarda a Maria non arriverebbe a questa conoscenza di Gesù…
Si stupisca chi vuole: a Medjugorje una veggente (il 1 agosto 1984) ha riferito in un messaggio che il compleanno della Madonna sarebbe il 5 agosto [probabile che la presunta “veggente” fosse a conoscenza delle pubblicazioni che hanno permesso all’autore di dedurre quanto detto. NdRedazione]. La veggente non era assolutamente in grado di fare le correlazioni qui esposte. Quel giorno (1 agosto 1984) la Madonna specificò che pochi giorni dopo si celebrava “il secondo millennio della mia nascita”: infatti 2000 anni prima del 1984 si è nel 17 a.C. (l’anno zero non esiste)… Nel vangelo di Giovanni (2,20) il tempio aveva 46 anni quando Gesù si mise a discuterne con i giudei: non un numero a caso, se corrispondeva all’età della sua mamma. Se suor Caterina o Brentano hanno escogitato scientemente tutto questo c’è da stupire per la capacità di far quadrare tutti i particolari. Se invece è tutto vero, c’è da rimanere allibiti. E fa davvero impressione il messaggio del 1984.
Ancor più straordinario è ciò che è successo nell’ultimo secolo. Prima guerra mondiale: nel 1917 a Fatima la Madonna si manifesta il 13 maggio. Il 13 ottobre davanti a sessantamila testimoni, compresi massoni, atei e giornalisti anticlericali, c’è il miracolo del sole. L’ottobre 1917 è quello della rivoluzione bolscevica, i cui sviluppi minacceranno la Chiesa all’insegna dell’ateismo ideologico. A Fatima, oltre alla comunicazione dei tre segreti, la Vergine avrebbe annunziato ai pastorelli di volere chiedere in futuro la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato, come poi riferito a Lucia il 13 giugno 1929. Fascismo, comunismo, nazionalsocialismo, seconda guerra mondiale, olocausto, bomba atomica: un terribile campionario diabolico devasta il mondo. Dopo i fatti alle Tre Fontane a Roma del 1947, nel 1950 il Papa Pio XII afferma il dogma dell’Assunzione di Maria. Mentre anche Amsterdam è teatro di altre apparizioni (la Signora di tutti i popoli), nel 1955 viene approvata la bandiera europea.
Dodici stelle
L’opera messoriana di “scoperta” della Madre per “riscoprire” il Figlio. E’ stata appena ampliata e riedita “Ipotesi su Maria”.
Grazie a Vittorio Messori è stata resa nota la vicenda di Arsene Heitz che in un’intervista prima di morire ha detto: «A me è stato richiesto di disegnare la bandiera dell’Europa. Ho subito pensato di metterci le dodici stelle della medaglia della Rue du Bac, su fondo blu, il colore della santa vergine». Ci aveva lavorato per cinque anni quando entrò nel novero dei disegnatori designati. Le stelle, in effetti, sono quelle dell’Apocalisse al dodicesimo capitolo: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”. Anche se non è molto sbandierato, il drappo che sventola sugli edifici pubblici dell’Unione (come anche il cerchio di stelle che sovrasta l’iniziale dello Stato sulle targhe di ogni automobile europea) viene dall’invenzione di un pittore che si ispirò alla sua devozione mariana. Il blu è tradizionalmente il colore mariano. La seduta che adottò la bandiera si tenne nel 1955 in un giorno determinato dagli impegni dei capi di Stato: l’otto dicembre!
La vergine Maria, la madre di Gesù è la nostra avvocata. La sua Immacolata Concezione ha inaugurato gli anni che hanno portato alla redenzione. Il signor Heitz portava al collo la cosiddetta “Medaglia Miracolosa”, coniata in seguito alle visioni nel 1830 di santa Catherine Labouré: la suora rivelò di avere avuto incarico dalla Madonna di far coniare e di diffondere una medaglia con le dodici stelle dell’Apocalisse e l’invocazione: “Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a te”. Quell’Europa non è certo quella del laicismo massonico…
Sia ringraziato e lodato Iddio provvidente anche per questa grandissima grazia fatta al genere umano.
Affidiamo a Lei il grido di dolore dell’umanità, perché interceda, come a Cana in modo che agli sposi non manchi il vino durante la festa.
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Si veda anche il libro dell’autore:
Ruggero Sangalli, Gli anni terreni di Gesù. La sorprendente cronologia nascosta nelle Scritture, Sugarco
Smobilitazione generale: la fede ormai trattata come fosse ciarpame da soffitta. Effetto domino: il “niet” al proselitismo innesca una reazione a catena. No all’evangelizzazione, no alla libertà di culto, no alla religione cattolica a scuola. E infine no anche ai simboli del Natale
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di Marco Sambruna
Antefatto:
Francesco dichiara il primo ottobre 2013 che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”[1]. Una proposizione che solleva scalpore. Del resto che non si sia trattato di un autogol involontario da parte del Papa lo conferma il fatto che lo stesso concetto Francesco lo esprime recentemente affermando che “Educare cristianamente non è solo fare catechesi e proselitismo. Mai fate proselitismo nelle scuole.” [2]
E’ probabilmente la prima volta nella storia delle Chiesa che un Papa si dichiara contrario al proselitismo, termine che indica la decisione di diventare seguaci di una religione sovranazionale ossia universale in seguito, nel caso del cristianesimo, alla conoscenza del Vangelo.
Affermazioni che hanno servito un assist d’oro agli esponenti del laicismo militante i quali subito ne hanno approfittato per porre in discussione non solo l’azione delle “agenzie umanitarie” cristiane, ma anche quella dei singoli credenti nella trasmissione della loro fede.
Un giorno di circa un mese fa sono invitato a partecipare tra il pubblico a un convegno sul tema del proselitismo e dei suoi limiti organizzato dalla facoltà di giurisprudenza di un’ importante università del nord.
Leggendo il programma del convegno capisco già dove si vuole andare a parare. Tale impressione si rafforza non appena leggo il nome dei relatori che qui definirò con degli pseudonimi: si tratta del professor Vecchi docente di diritto canonico e del professor Grassi docente di scienze politiche.
Infine il dibattito è coordinato dal professor Cupi direttore della rivista che ha organizzato l’incontro tra i cui obiettivi c’è quello di promuovere il dialogo interreligioso.
NO all’evangelizzazione
Bologna
Nell’aula in cui si svolgerà l’incontro ci sono i soliti quattro gatti a ulteriore testimonianza del fatto che i temi variamente associati alla religione non interessano più nessuno. Come se non bastasse alcuni tra i convenuti, quasi tutti studenti universitari, sembrano più dediti alla consultazione di smartphone e tablet che non ai contenuti del dibattito che sta per iniziare.
E’ il professor Grassi a prendere per primo la parola e a inquadrare i termini della questione: esiste un proselitismo “cattivo” e uno “buono”. Quello “cattivo” consiste nell’indurre il seguace di una determinata religione ad aderire a un’altra fede con metodi più o meno coercitivi ossia manipolatori e psicologicamente riprovevoli o sottilmente ricattatori ricorrendo al cosiddetto e mai meglio precisato “lavaggio del cervello”.
Questo tipo di proselitismo non solo è moralmente inaccettabile, ma è anche proibito per legge.
Esiste poi un proselitismo “buono” che si serve di metodi non pervasivi quale l’argomentazione tesa a persuadere, ma rispettosa della fede dell’interlocutore il cui fine è convincere senza imporre e senza vendere pericolose illusioni o promesse impossibili.
Spagna
Per spiegare meglio quest’ultimo concetto il professor Grassi ricorre a un esempio: nei paesi africani le “agenzie missionarie” (testuale) della chiesa cattolica o protestante inducono a credere che aderire al cristianesimo consente di ottenere non solo vantaggi spirituali, ma anche materiali.
Il neoconvertito alla fede cristiana può insomma risolvere i suoi problemi economici perché riceverà in cambio della sua conversione denaro o beni: egli infatti gode del favore particolare di Dio.
Detto questo ridacchia sarcasticamente il sagace professor Grassi ricevendo peraltro qualche stiracchiato accenno di sorriso da parte di un paio di studenti fra il pubblico gran parte del quale continua tranquillamente ad armeggiare con smartphone, tablet e notebook.
Che farne dunque di questo proselitismo “buono” associato al concetto di evangelizzazione ? Questo tipo di proselitismo in generale sarebbe accettabile, puntualizza il professor Grassi, , tuttavia c’è una questione delicata che occorre precisare
L’esimio professore effettua una pausa teatrale con l’aria seriosa di chi ha meditato a lungo sul problema; infatti, afferma il luminare con atteggiamento istrionico, in alcuni casi ci si può imbattere in circostanze in cui si lede, sia pure con buone intenzioni la libertà altrui.
Basta pensare, esemplifica il professor Grassi, alle strutture che la chiesa, sempre con le sue “agenzie umanitarie”, edifica nei paesi del terzo mondo: sia pure involontariamente queste strutture inducono in chi nei fruisce a credere a una presunta superiorità della religione cristiana e quindi favorire una conversione in qualche modo forzata.
Per cui sarebbe meglio che di queste iniziative umanitarie se ne occupassero solo ed esclusivamente “agenzie” interamente laiche.
Non occorrono didascalie
La parola compete ora al professor Vecchi, docente di diritto.
In effetti, esordisce il professore, il confine che separa il proselitismo “buono” o evangelizzazione dalla manipolazione psicologica sia pure involontaria è assai labile, è facile tracimare dall’uno all’altro. Si prenda il caso, avverte il Vecchi, del seguace di una religione che decida di fare una donazione al seguace di un’altra fede. Certo, conviene l’esimio professore, la donazione può essere fatta senza secondi fini, per disinteressato spirito di solidarietà tuttavia in qualche modo il ricevente potrebbe ritenere che abbracciando la religione del donatore è possibile conseguire benefici materiali e quindi ci troveremmo di fronte a una sottile forma di coercizione psicologica.
Che fare in casi come questo ? Salvaguardare l’integrità psichica del ricevente o preservare il suo diritto ad essere informato circa i caratteri di un’altra religione ? Nel primo caso è opportuno un intervento legislativo, nel secondo ci si può astenere.
Il professor Vecchi esita, barcolla, soffre visibilmente nel travaglio da partoriente da cui scaturirà la risposta definitiva alla vexata quaestio. Infine, sia pure patita, sofferta nella carne e nello spirito con drammatica e impostata serietà il professor Vecchi emette il verdetto: è senz’altro meglio impedire l’evangelizzazione che salvaguardare la libertà all’informazione potendo tale libertà facilitare possibili manipolazioni psichiche. Urgerà quindi in un futuro prossimo predisporre un impianto legislativo che vieti per legge, come già accaduto in Grecia con la “sentenza Kokkinakis”[3], qualsiasi forma di proselitismo e/o evangelizzazione.
Conclude quindi la serie degli interventi il professor Cupi il quale, alla luce di quanto emerso, non può fare a meno di ribadire che la Chiesa deve a questo punto abbandonare riguardo all’ evangelizzazione la sua concezione tipica per cui extra ecclesia, nulla salus.
Nel silenzio sepolcrale che ammanta l’aula da qualche parte una matita cade; un rumore glaciale che sembra il suono di una campana a morto.
Il dibattito si conclude quindi con l’auspicio di una legislazione adeguata che limiti o proibisca ogni forma non solo di proselitismo, ma anche di evangelizzazione.
Mentre in aula echeggiano pochi e sparuti applausi nessuno pare aver realizzato che è appena stata sdoganata, almeno a livello culturale, l’idea che la religione debba rientrare nelle catacombe.
NO alla libertà di culto
Appare sul sito di informazione cattolica “La Nuova Bussola quotidiana” un articolo che può apparire sconcertante solo a chi non ha ancora capito bene, anche e soprattutto fra cattolici, ma oserei dire fra i credenti in generale, in che cosa consista la nuova religione laicista che si sta consolidando in Italia.
Durante il primo pomeriggio del 30 luglio infatti in Senato il parlamentare di Forza Italia Lucio Malan presenta un ordine del giorno volutamente provocatorio forse col fine di sondare le reali intenzioni del Senato circa la questione della libertà di professare la propria religione di appartenenza e riguardo il primato dei genitori nella educazione dei figli. Si tratta di osservare in altri termini quali siano le reali intenzioni del governo su questi due temi costringendolo ad assumere una posizione chiara, netta e definitiva senza ambiguità dialettiche.
Si legge tra l’altro nell’ordine del giorno: «il Senato impegna il Governo a non violare i due diritti fondamentali riconosciuti, garantiti e tutelati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, i propri valori religiosi, e il diritto di priorità dei genitori nella scelta di educazione da impartire ai propri figli (artt. 18 e 26); a garantire e tutelare il diritto dei genitori ad educare i propri figli».
Si tratta evidentemente di postulati contemplati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo universalmente riconosciuti e promossi a livello planetario: sono diritti così ovvi che una verifica circa l’adesione del Senato a quei valori non dovrebbe minimamente essere in dubbio.
E infatti si scatena il putiferio: i senatori si sentono personalmente lesi nella loro dignità e nell’integrità della loro fede democratica come se si alludesse, con quell’ordine del giorno, a una loro intenzione di venir meno alla tutela delle più elementari garanzie democratiche a salvaguardia delle libertà di religione e di educazione.
Con l’intermediazione del senatore Francesco Nitto Palma si propone all’ordine del giorno un testo modificato in modo da cancellare ogni allusione alla possibilità che il Senato voglia trasgredire i diritti universali dell’uomo.
Il testo modificato infatti interroga il governo circa la sua intenzione di continuare a garantire e a rafforzare la tutela dei diritti fondamentali così come dichiarato dalla magna charta della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo secondo la seguente formula:
«Il Senato impegna il Governo a continuare e a rafforzare la tutela dei due diritti fondamentali riconosciuti, garantiti e tutelati dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, i propri valori religiosi nell’educazione, e il diritto di priorità dei genitori della scelta di educazione da impartire ai propri figli; a garantire e tutelare il diritto dei genitori ad educare i propri figli».
A questo punto possono accadere due cose: o il Senato vota a favore dell’ordine del giorno modificato a salvaguardia della onorabilità dei senatori che certamente – Dio ce ne scampi ! – tutelano le libertà fondamentali, oppure vota contro dimostrando che l’indignata sollevazione dei senatori era solo un pretesto per sottrarsi alla pubblica esposizione della propria vergogna che consiste semplicemente nel non voler tutelare né la libertà di manifestazione della propria appartenenza religiosa, né il primato dei genitori per quanto attiene l’educazione dei figli.
Prevale il secondo evento: il Senato vota contro l’ordine del giorno negando quindi quelle libertà fondamentali verso le quali numerosi senatori avevano professato fedeltà assoluta tanto da offendersi per il semplice fatto di porre a verifica con un voto questa loro presunta fedeltà.
Tra la maggioranza di coloro che hanno votato contro c’è anche l’onorevole Cirinnà che, com’è noto, ha redatto il disegno di legge per i diritti civili degli omosessuali.
Ora appare singolare il motivo di tale voto contrario: infatti in nessun modo la professione della libertà religiosa e la libertà di educare i figli da parte dei genitori poteva e può compromettere l’approvazione e l’implementazione della legge sulle unioni civili fra persone dello stesso sesso.
Le due posizioni possono tranquillamente convivere anzi in una prospettiva di salvaguardia dei diritti civili devono coesistere.
Dunque come motivare questa fiera avversione alla tutela dei diritti fondamentali presentati dall’ordine del giorno ? Sorge dunque il sospetto che i promotori delle leggi di promozione della cultura LGBT e affini non s’impegnano in queste battaglie a favore degli omosessuali per sensibilità umana o vocazione democratica; se così fosse infatti voterebbero senza dubbio a favore delle tutele fondamentali contemplati dalla carta della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
In altri termini c’è il dubbio che a costoro dei diritti LGBT non importi poco e che la loro dedizione alla causa abbia soprattutto lo scopo di promuovere norme legislative orientate a smantellare tutto ciò che si richiama a una visione dell’uomo tradizionale, ossia religiosa.
NO alla religione a scuola
Posta in discussione la legittimità di ogni visibilità pubblica della religione tramite l’eliminazione delle sue strutture o “agenzie umanitarie” (scuole, ospedali, orfanotrofi confessionali), insinuata la necessità di vietare per legge la sua divulgazione tramite l’evangelizzazione, cessata la tutela statale affinché sia preservata la libertà di professare pubblicamente l’adesione a una qualsivoglia religione, assicurato il privilegio dell’educazione allo stato anziché ai genitori, tuttavia per lor signori resta un problema insoluto: la religione, bandita quanto alla sua visibilità fisica e conculcata la sua diffusione, continua a permanere come tensione verso il trascendente nell’intimo della coscienza.
Per vincere la guerra occorre quindi espugnare anche quest’ultimo bastione difensivo.
Ed è qui che entra in gioco la legge che introduce nelle scuole l’ora obbligatoria di “storia delle religioni” in luogo della facoltativa ora di religione (cristiana).
Chiaro, ma non potevano esserci dubbi, che in omaggio alla dottrina del politicamente corretto, si parla non di “storia della religione”, ma di “storia delle religioni” in cui è facile immaginare sarà concesso largo spazio ad altri monoteismi oltre che al cristianesimo, ma non è questo il punto.
Ciò che importa è il fatto che la nuova materia verte appunto non sulle religioni, ma sulla storia delle religioni. Il che equivale a dire che le religioni saranno storicizzate.
Tale pericolo è tanto più concreto se, come si comincia già a ventilare, gli insegnanti di storia delle religioni non saranno più nominati dalle curie diocesane, ma dal ministero.
Si potrà allora affrontare il tema della religione secondo molte prospettive.
Ad esempio farne un modello storicista e quindi equipararla alle altre “microstorie” quali, ad esempio, la storia dell’economia, la storia della filosofia o la storia del diritto ossia rappresentarne la sola dimensione orizzontale recidendo il legame con la trascendenza, ridurla a fenomeno umano, magari interpretandone lo sviluppo secondo i dettami della storiografia materialistico – dialettica cioè marxista.
Oppure darne una lettura sociologica presentandone una versione sbiadita e depotenziata tale da trasformarla in storia del fenomeno religioso nelle società umane.
Dal punto di vista filosofico si potrà dire che la religione ha avuto un ruolo nello sviluppo della civiltà perché è stata il fattore più determinante nel plasmare l’antropologia umana riconoscendogli uno statuto fondamentale verso la conquista della modernità come pretende il pensiero debole.
In una accezione psicoanalitica si potrà anche sostenere che continua a conservare un ruolo importante perché alimenta il “senso del sacro” come prodotto psicologico innato nella natura umana soddisfacendo il desiderio di sopravvivere alla propria finitudine.
Infine non è da escludere nemmeno sia rappresentata come un elemento disgregante, una zavorra secolare che ha ostacolato il cammino della scienza e della tecnica moderne e che quindi debba essere accantonata come qualcosa di anacronistico.
Di tutto si potrà insegnare della religione e circa la religione tranne che traduce in segni visibili, sistema di valori e stile di vita l’insopprimibile e naturale tensione verso Dio da parte dell’uomo; in ogni suo aspetto sarà esaminata puntigliosamente tranne che in quello escatologico e soteriologico che la qualificano come mezzo salvifico in vista dell’eternità.
Alla luce di tutto questo per salvaguardare la religione da storicismi, riduzionismi, psicologismi c’è un solo modo: la conferenza episcopale italiana e i dirigenti della comunità islamica in Italia devono richiedere al governo italiano che l’ora di religione obbligatoria o facoltativa sia abolita, cancellata dai programmi scolastici.
E’ il solo modo per impedirne la storicizzazione, la profanazione, la dissacrazione e, in certi casi, perfino la derisione. Del resto è un processo di degrado cui il liberal materialismo postmoderno ha già sottoposto la letteratura trasformata prima in giornalismo e poi in cronaca, la filosofia trasformata prima in psicologia e poi in psicologismo, la storia trasformata prima in sociologia e poi in statistica.
NO al natale
Presepe in fiamme
Di fronte a questo clima di smobilitazione generale e di disfatta nemmeno troppo onorevole, leggiamo alcune dichiarazioni di alti gerarchi cattolici decisamente sconcertanti.
Apprendiamo così che i campioni della liquidazione totale dei valori cristiani e quindi occidentali non si annidano solo fra i laicisti di sempre, ma anche fra esponenti di spicco della gerarchia cattolica.
Il vescovo di Padova Claudio Cipolla nominato da Bergoglio ad esempio esce allo scoperto e dichiara quello che forse è un pensiero molto più diffuso di quanto non sembri fra il clero: i segni visibili del cristianesimo in una prospettiva di dialogo e di fratellanza universale devono sparire non solo dallo spazio pubblico, ma forse anche dalle chiese: via presepi, canti natalizi e, quasi certamente in un prossimo futuro anche i simboli sacri come il crocifisso.
La dichiarazione di resa del vescovo[4] è così disperata da suscitare quasi tenerezza: è il paradigma del credente odierno ormai disorientato, in probabile crisi umana e di fede che non è più in grado per debolezza, timore, stanchezza di salvaguardare i simboli della fede che rappresenta.
Del resto abbiamo già scritto altrove che a voler abolire i simboli cristiani non sono gli islamici, ma gli esponenti di un certo catto progressismo desideroso di inserirsi nel mainstream ideologico dominante e uscire dall’isolamento culturale.
Il problema di certo clero post moderno è il sentimento del proprio smarrimento dal punto di vista della fede; il che è ancora perfettamente comprensibile se si rifletta sull’idea di “notte oscura della fede” che ha attanagliato perfino santi come Madre Teresa di Calcutta e forse anche Paolo VI.
Ma chi ha attraversato la notte oscura ha continuato per arida fede a difendere la religione che rappresenta senza impoverirla per renderla conforme alle sue debolezze.
Si ha la sensazione diffusa che una parte degli uomini di chiesa non creda più a ciò che proclama manifestando una sorta di scissione fra pensiero e dottrina. Anziché adeguare il pensiero al magistero alcuni eminenti esponenti del clero sembrano fare il contrario: ma quando non è più il magistero di cui non si avverte più la ricchezza a guidare pensiero e azione significa semplicemente che è venuta meno la fede.
La “notte oscura” ha messo alla prova la fede e ha vinto; se il pensiero di un cattolico resta separato dal magistero della Chiesa egli è diviso in se stesso e l’incompiutezza è garantita: la pretesa di continuare a rappresentare la chiesa mentre ci si impegna a relegare in soffitta i simboli sacri come fosse ciarpame da rigattiere significa in definitiva boicottarsi, votarsi a una specie di scissione intima.
Manganellate sul presepe
Dall’eclissi della fede deriva una sorta di “dislocazione delle fonti” cioè di una non strategia o anti strategia destinati all’ inconcludenza o all’instabilità; pensiero e azione non hanno più origine dalla dottrina, dai concili, dalle teologie, ma hanno come fonte le profondità caotiche della psiche da cui si attingono incertezze, dubbi e fragilità personali che sono tali perché non più alimentate da un contatto diretto con l’insegnamento della Chiesa.
Se è così la “teologia del dubbio” che ha travolto alcuni pastori non è in continuità o in discontinuità con la tradizione, non è nè progressista, nè conservatrice, ma semplicemente è la sintesi dialettica di tutte le posizioni e dei loro opposti in una specie di grande ammucchiata pastoral-teo-omiletica da cui, a seconda degli umori personali del momento, si estrapola questo o quell’aspetto. E’ una sorta di esistenzialismo cristiano al cui centro ci sono le pulsioni dell’uomo e non più Dio ed in cui l’evento cristiano non si svolge più nella storia, ma si agita e agisce solo come puro fenomeno emotivo.
L’arte ha a che fare con la redenzione, piuttosto che con la condanna. Lo ha capito da sempre la Chiesa … Per questo ha chiesto agli artisti di rappresentare in modo vivido e realistico quanto è nei cieli e ha chiesto che anche le pietre degli edifici siano immagine delle pietre vive per le quali Cristo ha dato la vita sulla Croce. Questo almeno fino a quando anche una parte del clero non si è mondanizzato e si è messo ad inseguire anch’esso le lucciole dell’arte contemporanea, abdicando al suo compito pastorale di proporre al popolo di Dio una viva immagine delle realtà spirituali. Come il demiurgo, nella mitologia platonica, era colui il quale getta la luce del bene sulla materia bruta al fine che nasca il mondo che conosciamo, così il fine dell’artista è quello di gettare la luce dei più alti e begli ideali sulla materia bruta che tratta al fine di produrre una bellezza che a quegli ideali conduca. L’artista come artefice di bellezza, come “calliùrgo”.
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“Cosa apprezzi di me, mio strano amante?” “Sii bella e taci!”
(Charles Baudelaire – Les feurs du mal, LXIV)
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di Padre Francesco Solazzo, C.P.
Pisschrist, anzitutto cos’è? Lasciamo descriverlo a wikipedia, in due righe:
PissChrist (in italiano “Cristo di piscio”) è una fotografia realizzata nel 1987 dal fotografo statunitense Andres Serrano. La foto raffigura un piccolo crocefisso di plastica immerso in un bicchiere di vetro contenente l’urina dell’autore. L’opera ha vinto, nel 1989, il premio Awards in the Visual Arts messo in palio dal Southeastern Center for Contemporary Art e sponsorizzato dal National Endowment for the Arts, un ente governativo statunitense che tutela e finanzia progetti a cui è riconosciuta un’eccellenza artistica. L’opera è stata danneggiata da cattolici il 17 aprile 2011 durante la sua esposizione ad Avignone.
È passato un mese, oramai, dai fatti che mi hanno stimolato a scrivere questo articolo, ma, certi pensieri è forse meglio lasciarli maturare un po’ prima di stenderli su carta. Così sono ritornato sul Pisschrist di Andres Serrano di cui si è discusso in occasione di Photolux Festival di Lucca, e sulla lettera aperta che Enrico Stefanelli, curatore dell’evento, ha scritto lamentando le polemiche aspre sorte in seguito alla sua decisione, poi ritrattata, di inserire l’ “opera” nell’esposizione. Nella sua lettera aperta Stefanelli scrive:
« Con dispiacere mi sono accorto invece che la coscienza socio-culturale ha dimostrato una inadeguatezza al riconoscimento della libertà di espressione artistica e ho dovuto constatare che i tempi e i luoghi non sono ancora sufficientemente maturi per il riconoscimento della libertà di espressione. »
Questa sua frase mi ha fatto apparir chiaro che vi sono dei punti oscuri che a mio parere gli sfuggono. Questa mia riflessione, dunque, toccherà due ambiti: il primo è quello sulla libertà di espressione e il secondo è un pensiero sull’arte. Questo breve percorso sarà accompagnato con titoletti presi dai versi della canzone “Liberi liberi” di Vasco Rossi: che non vuole per niente essere banale, ma solo una maniera ironica di vedere guardare a questi intellettualismi del mondo dell’arte contemporanea.
Liberi, liberi siamo noi, però liberi da che cosa?
Pietro Rotari (1707-1762) Giovane donna col libro “Sii bella e taci”
La libertà di espressione artistica, innanzi tutto (credo che in questo si potrà esser d’accordo con me), può rientrare nella più ampia libertà di espressione e di parola che la nostra cultura occidentale riconosce a tutte le persone. Se non ci sarà libertà di espressione e di parola, infatti, neanche l’artista sarà libero di esprimersi secondo il linguaggio che gli è proprio. Ma qui cominciano i primi interrogativi.
La lettera dice che « la mostra, così come il Festival prescinde da ogni forma di fondamentalismo e di personalizzazione ed è fonte di libertà assoluta ». Sorvoliamo sul fatto di come una mostra possa essere fonte di libertà. C’è però da chiedersi che senso abbia che questa libertà sia assoluta. C’è da chiedersi, cioè, se questo non sia un culto idolatrico che finisce con la negazione della stessa libertà poiché la riduce a feticcio di un astratto idealismo cui inchinarsi. Mi spiego meglio.
Per qual fine è data la libertà nelle nostre società occidentali? Per quali ragioni si sono continuamente fatte delle lotte, anche sanguinose in nome di questa libertà? Non è forse per permettere alle persone un dialogo franco e sereno al fine di favorire gli scambi di idee e di cultura? Non è perché se io ho un’idea e tu ne hai un’altra e ce le scambiamo saremo arricchiti entrambi? E cioè, questa libertà non è stata rivendicata e ottenuta affinché tutti i membri della società civile possano contribuire, ognuno secondo le proprie capacità e ricchezze individuali e sociali, alla ricerca e alla costruzione del bene comune?
Albero della libertà. L’idolatria della libertà.
L’uomo, essendo un “animale sociale”, come già avevano intuito gli antichi, non può prescindere dalla società in cui nasce, vive e muore; allo stesso modo anche la libertà non ha senso se ristretta al solo ambito dell’individuo e deve trovare il suo perché completandosi con la sua imprescindibile dimensione sociale. Se vista in questa duplice dimensione allora la libertà può diventare vera occasione di promozione sia degli individui sia dell’intero corpus sociale. In questa duplice prospettiva, però, consegue anche che non vi può essere posto per una libertà assoluta, perché essa risulterà sempre essere relativa alle persone e alla loro promozione individuale e sociale.
Difendere una libertà svincolata dal bene significa idolatrare la libertà. Ed ogni idolo, lungi dall’elevare le persone, le schiavizza poiché diventa esso il fine, mentre le persone divengono strumenti; ecco perché ho affermato che questo culto riduce la libertà a feticcio di un idealismo astratto.
Forse eravamo “stupidi”, però adesso siamo “cosa”?
Je ne suis pas Charlie.
Purtroppo questa idolatria della libertà è qualcosa che sta pervadendo la nostra società e, perfetta espressione di questo culto vuoto e svuotante, è stato tutto quello che successe in occasione dell’attentato a Charlie Hebdo. Allora tutti fecero a gara nel dire “je suis Charlie” e a ripeterlo come pappagalli addestrati dai media. In quell’occasione io non fui Charlie e oggi continuo a non esserlo. Non potevo. Non posso. È una questione di civiltà e di ragionevolezza.
Questa mia presa di posizione non vuol essere affatto una giustificazione di quei crimini: lungi da me una considerazione simile. Ma non posso identificarmi con un giornale che abusava della libertà per insultare, irridere e oltraggiare. Non posso reputare quelle espressioni come civiltà. Quale contributo positivo (culturale, informativo, d’intrattenimento, ecc.) dava quel giornale alla società? (A parte, si intende, l’affermazione della libertà stessa, ma svuotata di un fine positivo). Ciò che successe attorno ai fatti di Charlie è significativo di come e quanto in Occidente la libertà sia diventata un idolo, di come sia stata sradicata dal contesto umano che l’ha generata e per la quale fu, a suo tempo, rivendicata dinanzi ai totalitarismi.
Oggi, vuota e privata di valore, rischia di diventare essa stessa un totalitarismo in cui il nome di “libertà” risuona come mero flatus vocis, disincarnato dalla realtà, ma anzi, come ulteriore fattore alienante. Il rifiuto di quell’“opera”, lungi dall’indicare una certa immaturità della “coscienza socio-culturale”, a mio parere, indica invece una certa vivacità del tessuto sociale che non si lascia piegare da un certo indottrinamento che continuamente certe élite ideologiche vorrebbero imporre attraverso i media.
Sì, perché l’“abuso di potere artistico mediatico”, come lo chiama Stefanelli, non è quello che gli ha fatto togliere l’“opera” dal catalogo della mostra, ma quello che glielo ha fatto mettere. Che sia ideologia, infatti, non v’è dubbio, ma non è una ideologia che viene da me o da tutti coloro che non volevano quella foto, ma che è presente in un certo modo di intendere l’arte che si è affermata in questi ultimi tempi della nostra storia. Ciò di cui vado a parlare ora, infatti, inerisce l’altra parte del mio discorso e che riguarda più da vicino il fatto estetico. È questo, infatti, che è stato via via ideologizzato.
Che cos’è stato, cos’è stato a cambiare così?
Piero Manzoni, Merda d’artista. Nessuna transustanziazione ha operato l’autore e, benché d’artista, sempre feci restano
Ciò che spesso fanno i critici, nel giudizio di un’opera d’arte contemporanea, e di cui Stefanelli ha dato una prova nella sua lettera, è quello di giustificarla intellettualmente, cercando le più recondite ragioni che hanno spinto l’autore alla creazione artistica: ragioni psicologiche, filosofiche (o piuttosto pseudo tali) e soprattutto sociologiche. I critici si parlano un po’ addosso e si citano l’un l’altro, come ha fatto l’autore che, cercando ragioni per rendere accettabile quell’“opera” cita anche una suora. Il critico, cioè, si mette palesemente dalla parte dell’artista, ignorando praticamente il fruitore. Queste giustificazioni intellettuali non sono fatte, come si potrebbe pensare in un primo momento, per accompagnare la fruizione dell’opera, ma per prepararla e cercare una previa persuasione del fruitore, in modo che nell’oggetto che avrà davanti veda proprio quello che il giudizio del critico indicava. Insomma, molta parte dell’arte contemporanea non sussisterebbe senza i servigi della critica. Come mai succede questo?
Io pongo l’inizio di questa “discesa” dell’arte nel 1886, anno in cui Gustave Courbet dipinse l’origine du monde(l’origine del mondo). L’operazione di questo artista, a mio avviso, fu un’abile operazione di marketing attraverso cui cercò di piazzare un’opera che gli fu commissionata e poi rifiutata. L’operazione, fondamentalmente, consisteva in questo: aver dipinto una cosa e chiamarla col nome di un’altra cosa. In quell’occasione, cioè, ci fu la prima separazione fra soggetto e titolo, in cui il titolo assumeva il ruolo di maschera intellettuale (o forse è meglio dire “intellettualista”) dell’opera d’arte.
Gustave Courbet, naturalmente, non modificò la realtà di ciò che dipinse; nessuna “transustanziazione” vi fu; e neanche una semplice “trasfigurazione” del raffigurato (e se oggi è la sua riproduzione in cartolina, al Louvre, è seconda solo alla Gioconda, non è certo per il titolo, ma per il soggetto). Neanche Piero Manzoni (per fare un altro significativo esempio) operò alcuna “transustanziazione” e la sua merda, nonostante l’etichetta “d’artista”, è sempre rimasta “scatoletta di latta, carta stampata e feci”. In queste operazioni vi è chiara una scissione fra realtà e idea, fra la cosa e il suo nome.
Chissà cos’è?…chissà cos’è?
Il titolo dell’opera è una maschera posta dall’artista all’opera per farle dire ciò che da sé non riesce a dire
L’artista, ponendo un titolo all’opera non fa altro che fingere, mediante la rappresentazione di una realtà, un’altra realtà. Questa strana commistione di finzione e realtà è l’erede di quella brillante operazione di marketing di Courbet e consegna l’arte ad una mentalità che non vede più in essa la ricerca della bellezza, ma quella del profitto.
Togliere i giusti nomi alle cose significa minare il linguaggio e conseguentemente indebolire il pensiero che di esso si serve; indebolire il pensiero significa togliere libertà alle persone. Si tratta di ridurre i fruitori di opere a semplici consumatori di “beni artistici”; trasformare i liberi fruitori in sudditi dell’impero del consumismo. In questo mi vengono in mente le parole della Arendt che diceva che « Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più » [H. Arendt, Le origini del totalitarismo, 1967.]. Quale differenza c’è fra il suddito del nazismo o del comunismo e il consumatore? I primi credono alla propaganda politica, i secondi alla propaganda della réclame. E il lavoro dei critici, spesso, somiglia tanto alla réclame! Non mi credete che nell’arte contemporanea si confonde realtà e finzione? Guardate un po’ cosa e successo a Miami!
Ponendo un titolo all’opera, in fin dei conti, l’artista cerca di far dire a questa ciò che da sola non sarebbe in grado di esprimere; mentre le opere più antiche non ne hanno bisogno, perché hanno come origine e fine la bellezza, la quale è di per sé loquace. Ecco perché l’ironica citazione di Baudelaire ad apertura dell’articolo.
…e la voglia, e la voglia di ridere…
Tramonto a Ugento (basso Salento). Abbiamo fame di bellezza, che sia opera dell’uomo o della natura.
Per un critico d’arte, forse, per valutare un’opera, è molto meglio mettersi dalla parte del fruitore, questi, alla fine di una visita ad un museo d’arte contemporanea, dopo aver subito tante “provocazioni” (che gli entrano da un orecchio e gli escono dall’altro) esce dal museo e si va a godere un bel tramonto o uno spettacolare paesaggio o resta a contemplare un’aiuola piena di fiori. Forse perché ha fame di bellezza? Io credo fermamente di sì. Tutti gli uomini cercano la bellezza, come nella natura così nelle opere di altri uomini. È sempre stato così. Che poi i canoni della bellezza varino, questo è marginale.
Cos’è più importante nell’arte: che essa sia l’espressione di un popolo e una cultura (cosa che non metto in dubbio) oppure che accompagni quel popolo e quella cultura ad una maggiore elevazione spirituale? Accompagnare gli uomini verso i più nobili ideali e rendere più raggiungibili quegli ideali: è questo stato il cruccio di poeti, pittori, scultori e quanti nei secoli si sono cimentati nelle arti. Le denunce lasciamole alla polizia!
Era tutta un’altra cosa!
El Greco,1541-1614. Risurrezione di Cristo. L’arte ha a che fare più da vicino con la redenzione, che non alla denuncia. La Chiesa lo ha sempre compreso e ha sempre chiesto agli artisti di levare i fedeli ai più alti misteri della fede.
L’arte ha a che fare con la redenzione, piuttosto che con la condanna. Lo ha capito da sempre la Chiesa che, nei suoi edifici ha sempre chiesto agli artisti il modo di esprimere quelle realtà spirituali che danno un significato alla vita e che infondono la speranza divina nel cuore del credente. Per questo ha chiesto agli artisti di rappresentare in modo vivido e realistico quanto è nei cieli e ha chiesto che anche le pietre degli edifici siano immagine delle pietre vive per le quali Nostro Signore Gesù Cristo ha dato la vita sulla Croce. Questo almeno fino a quando anche una parte del clero non si è mondanizzato e si è messo ad inseguire anch’esso le lucciole dell’arte contemporanea, abdicando al suo compito pastorale di proporre al popolo di Dio una viva immagine delle realtà spirituali.
Come il demiurgo, nella mitologia platonica, era colui il quale getta la luce del bene sulla materia bruta al fine che nasca il mondo che conosciamo, così il fine dell’artista è quello di gettare la luce dei più alti e begli ideali sulla materia bruta che tratta al fine di produrre una bellezza che a quegli ideali conduca. L’artista come artefice di bellezza, come “calliùrgo” (e mi si conceda questo brutto neologismo!). Il “denunciatore” facciamolo fare ad altri!
Dopo 20 secoli di cristianesimo, la cristianità è peccatrice, divisa, confusa teologicamente, evaporata in interi territori di grande tradizione e cultura cristiana. Gesù lo aveva detto: quando tornerò, troverò la fede sulla terra? Siamo salvati, ma siamo salvati perché perduti. Ma chi ha l’umiltà di sentirsi “perduto” se tutti insieme possiamo vincere, nulla ci è precluso e il futuro (la vita) non è un dono ma sarà un nostro prodotto? La rimozione del peccato originale è necessaria a chiunque ha bisogno di rendere non necessario Cristo come unico salvatore. Tolto il peccato originale è facile rileggere la storia in divenire, in chiave evoluzionistica, progressiva, dall’uomo bruto a quello intelligente, non essendoci più il passaggio che dall’uomo perfetto aveva portato a quello abbrutito e imbestialito dal peccato. Ecco così il mito del buon selvaggio, la radice logica di Rousseau e di tutto l’illuminismo (massonico e anticristiano). La “chiesa universale”, la “neochiesa”, a-dogmatica e di tutti fratelli, quella del Cristo massonico, uomo che parla di amore umano agli uomini, senza pretese di verità differenti dalla filantropia, senza più giudizio sulle forme, perché “ogni amore è amore”, perché non ha più peccati personali da giudicare, in cui l’inferno è vuoto e si è salvi “automaticamente”, è una grande tentazione e insieme è una grande mistificazione… L’aver sotterrato questa dottrina del Peccato Originale, ridotta all’insignificanza e ritenuta obsoleta (gli esempi si sprecano), spiega lo stato in cui versa la Chiesa e lo scatenamento di Satana a tutti i livelli.
Era mesi fa quando il Mastino mi domandò di fare qualche riflessione su “l’origine di tutti i mali e le apostasie: la rimozione del Peccato Originale” dalla prospettiva cristiana e cattolica. Politicamente scorretto per alcuni, irrilevante per taluni, assurdo per altri, e insieme ormai sono la maggioranza. Fatto sta che è diventato il grande Rimosso e, va da sé, il grande Dimenticato del cristianesimo. Pur essendo all’origine di tutto.
Poi il Mastino d’improvviso si ritirò “in silenzio e isolamento” per un lungo periodo e la riflessione che su sua insistenza avevo scritto, rimase inedita, fatta solo circolare privatamente tra amici via mail. Ma infine il Mastino è ritornato al mondo, si è rifatto vivo e mi ha scritto, non dimentico di quella faccenda. Infatti, qualche giorno fa mi scrive, dicendo:
«Ieri è venuto a trovarmi un amico cattolico belga che mi ha parlato del cattolicesimo di quel paese, storia finita naturalmente. Ma mi spiegava che per il clero, i teologi, i vescovi, i più almeno, se c’è fra tutte una cosa che è fuori discussione è che Maria non era per niente immacolata, assolutamente nessuno crede e nessuno insegna che ha partorito restando vergine, e guai a dire il contrario, si rischia oltre il ridicolo anche di venire espulsi dai seminari, se si è seminaristi. Ecco la solita costante: la prima a dover cadere per i progressisti e gli eretici è Maria, la prima porta da sfondare è il suo parto verginale e, chiaramente, la sua immacolata concezione anche se quest’ultimo dettaglio non importa a nessuno, irrilevante – non è un caso che molti preti si rifiutino di battezzare per mondare dal “Peccato Originale”: è assurdo, dicono, che su un bambino innocente ricadano colpe che non può avere. Ma è mettendo in discussione Maria, prima che la resurrezione, che “tutto cade”. E’ Maria prima di Cristo che tutto regge».
Sacrosanto!
Naturalmente, conosco abbastanza la situazione belga: disastrosa.
Se mi passate l’azzardo: è un po’ come l’uovo e la gallina. Chi viene prima?
Senza il PO non serve l’Immacolata.
Senza l’Immacolata non serve la Verginità.
Senza il miracolo non serve la trascendenza.
Senza trascendenza non serve Dio.
Tutta natura. E l’uomo a governarla.
Noi peccatori? Ma quando mai! Dio è libertà!
La Rivelazione? Ma quando mai! Siamo adulti, non crediamo alle favole.
Noi “cerchiamo insieme” la Verità attraverso i “segni dei tempi”.
Invece per un cristiano non ci sono dubbi: viene prima l’uovo. Dio crea! Dio interviene! E noi siamo servi inutili. Se siamo umili come Maria diremo “come è possibile” e subito dopo un “Sì”, da umili ancelle.
Se non siamo come Maria, preferiremo fare a meno di un Redentore troppo scomodo per dialogare con tutti.
Faremo a meno anche della volontà del Padre. Di Regno preferiamo il nostro, con il motto (satanista): che sia la mia volontà ad essere fatta, sempre e comunque.
La Donna vestita di sole
Il Belgio post-cristiano è un avamposto di quello che semina la teologia attuale.
Ho una certezza: al momento opportuno sarà spazzata via con tutti i suoi corifei.
Non da me, da voi o da noi poveri giapponesi (secondo i benpensanti in auge) sull’isola deserta.
A noi, come monaci atoniti, deve importare solo la grazia di Dio, non la vittoria sul mondo. Vince un Altro.
E dunque, apprestiamoci a realizzare, seppur con ritardo, il desiderio originale del Mastino: riporta il Peccato Originale “dentro la Chiesa”, e scegliamo proprio questo periodo emblematico: sotto Natale.
L’Origine di tutto
La visione apocalittica di Giovanni a Patmos: la cacciata degli angeli ribelli
Il Peccato Originale sta diventando uno sconosciuto teologico. Viene emarginato nella predicazione ordinaria della Chiesa cattolica, talora espressamente cassato nelle denominazioni protestanti dissolte nella “religione civile” e dunque nel conformismo mondano. Tra i dogmi, sempre di troppo per poter dialogare senza freni, è il primo a essere messo da parte, provocando un effetto domino sulla portata dell’Immacolata Concezione, quello dell’Incarnazione, la natura di Cristo e quindi la stessa Redenzione, protendendosi nei Novissimi.
La realtà e che l’universo intero è segnato dal peccato a cominciare dal disordine primigenio che ha turbato l’armonia della creazione. Qui è necessario piantare un primo paletto nel (piano) terreno: “In principio” (bereshit). Dio è oltre il tempo, non ha inizio né fine: è eterno, e non è confinabile in uno spazio, è infinito. Creando (solo Lui), diede inizio alla creazione, al tempo e allo spazio. Dio creò “il cielo” (non nel senso delle galassie, bensì “le cose invisibili”, tra cui gli angeli) e “la terra” (non solo il nostro pianeta, ma tutte le galassie e quanto vi esiste). Dio creò tutto per bene. Fece “cielo” e “terra”, le cose “invisibili” e quelle “visibili”, le creature che sono solo “spirituali” e quelle anche o solamente “materiali”. L’uomo è il vertice della creazione perché assomma, nella perfezione creata, entrambe le caratteristiche.
Nei “cieli” vi fu una ribellione: alcuni spiriti non accettarono di essere solo creature e di non poter creare; si combatté una battaglia e gli “spiriti ribelli” furono precipitati sulla “terra”. L’invidia luciferina non accettò la volontà di Dio (manifesta) di prendere carne. Gli spiriti ribelli, espulsi dal Cielo, regno in cui vige la volontà divina, furono precipitati “in terra”, dove esportarono la ribellione tentando l’unica creatura, dotata di vita spirituale e di libertà, che potesse essere interessata a valutare l’opzione di rifiutare la volontà di Dio.
La volontà ribelle delle creature spirituali, e confinata in quell’ambito, per potersi insinuare anche nella realtà materiale abbisognava dell’assenso di una creatura fatta anche di carne, nella propria libertà.
Le conseguenze fisiche della scelta di Adamo
L’uomo in Adamo preferì la menzogna satanica all’insegnamento di Dio. Questo “disastro” non fu una bazzecola, un mero capriccio, ma sprigionò una serie di conseguenze anche fisiche su tutta la creazione, non solo sull’umanità. Oggi la creazione è inquinata e deturpata dal peccato; ma insieme alle scelte dell’uomo (libere) e alle leggi della natura (le “cause seconde”), che mescolandosi paiono produrre la casualità che punteggia la storia, resta sempre la volontà di Dio, provvidenza che regge le une e le altre.
Così Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo, non ha abbandonato l’umanità dopo il peccato originale. E la persona del Figlio, esistente da sempre e per sempre, ha preso carne nell’umanità di Gesù, attraverso il “sì” che una ragazza, già preservata dal peccato originale(immacolata concezione) disse all’angelo all’Annunciazione. Gesù ci ha insegnato a chiedere al Padre che venga il Suo regno, come in cielo così in terra. E sia fatta la Sua volontà!
Non così l’angelo ribelle e decaduto che ha invidiato il ruolo dell’uomo fin da prima che esistessero le “cose visibili”. Satana è un essere spirituale, intelligentissimo, ma non è a immagine e somiglianza di Dio. Ha odiato l’uomo, invidioso del fatto (a lui noto) che Dio avrebbe preso carne umana nel Figlio. E’ un cane alla catena che abbaia e spaventa, ma non può azzannare, finché non gli si va vicini: ma ci sono epoche in cui Satana è “sciolto dalle catene”; il nostro tempo ne ha tutte le caratteristiche. Il tempo in cui l’uomo, col proprio libero arbitrio, adora chi gli propone “sia fatta la tua volontà”. L’uomo vorrebbe adorare se stesso, e invece adora “l’invisibile” ribelle, che gli suggerisce la ribellione a Dio.
L’uomo che decide di non fare la volontà di Dio sperimenta tutte le conseguenze del fare di testa sua.
Sia fatta la volontà dell’uomo! Il peggior castigo di Dio
Una macchia incancellabile
Conseguenze tragiche, drammatiche, sanguinose, catastrofiche… E Dio lo permette, perchè il peggior castigo che possa infliggere all’uomo è quando consente che sia fatta la volontà dell’uomo, contro la Sua… Dio però non smette di amare l’uomo, come non smise dopo il Peccato Originale. “Castiga”, perché voltare le spalle a Dio è peggio per l’uomo, ma non abbandona. Perciò la Rivelazione è una promessa che invita a far sfociare la storia della creazione visibile nella conversione, così che la natura ferita possa essere divinizzata in Cristo (la Theosis), in comunione con Lui che è amore.
C’è solo una creatura umana che ha fatto al 100% la volontà di Dio: l’Immacolata Concezione. La tutta pura. Sarà stato un caso? Evidentemente non lo è. Bisogna riflettere sul fatto che il cristianesimo è innanzitutto un’esperienza. Dio si rivela all’uomo che ha le facoltà di comprenderne la Rivelazione. E con anche la facoltà di accorgersi di quel che succede.
Durante il battesimo del figlio di una coppia di amici, nel caos totale di un “popolo di Dio” completamente rapito da foto, filmini, selfies e battimani (è ormai usuale raggruppare una decina di battesimi, raggiungendo numeri ragguardevoli di presenze in corpo, ma quasi altrettanta assenza in spirito al rito sacramentale), con il celebrante preoccupato soprattutto di “fare il simpatico”, ho notato che non è stato nominato mai, in più di un’ora di celebrazione, il peccato originale. Tramite mia moglie, Dio mi ha fatto una grazia, con queste parole semplici: “Ma ci pensi? Quei bambini adesso sono come l’uomo prima del peccato originale! Eh già, perchè per mezzo del Battesimo quelle creature sono state rigenerate”.
Mentre i più “lontani” pensavano soprattutto alla festa e ai chilometri da fare per raggiungere il luogo prescelto, padrini e madrine pensavano al regalo, e i più “vicini” festeggiavano “l’entrata a far parte della comunità” (rigorosamente accogliente e tanto carina, quasi che il battesimo fosse soprattutto questo), il sacramento amministrato aveva agito su un “problemino” non da poco, imprimendo un “sigillo”, indelebile, per mezzo dello Spirito Santo”, che ci fa partecipi del sacerdozio di Cristo. Si “vede qualcosa”? Niente.
In chiesa erano state rinnovate le promesse battesimali, dicendo “rinuncio” (a Satana) e un triplo “credo” sui dogmi di fede, seguite da un “amen”: il trasporto (eufemismo) con cui erano state pronunciate quelle parole da quasi tutti non aveva trasmesso il loro peso, valido per chi avrebbe già un’età per capire quel che sta dicendo… ma tant’è! Se dunque quello che non si vede per molti non c’è, quel che si vede com’è?
Anche gli onesti possono non essere giusti
Salvator Mundi
Le leggi degli uomini, spesso ingiuste e imposte da poteri interessati, se rispettate portano a essere “in regola”… con il mondo. Le leggi degli uomini possono non essere allineate ai comandamenti di Dio (che è il minimo per essere “giusti” davanti a Dio e agli uomini), per cui anche gli “onesti” possono non essere “giusti”.
Oggi si è così confusi da ritenere assolto il compito di credente comportandosi “da buon cittadino”, come se ai tempi di Robespierre le cose avessero funzionato. Mentre il progetto dell’uomo viene riaggiornato ad ogni cambio di ideologia e di potere che la propone e la impone, dicendola la “panacea ai mali del mondo”, il cristianesimo contro il peccato, e la sofferenza che ne scaturisce, chiede molto di più: accrescere la virtù (fede, speranza, carità), rinunciare al mondo (povertà, castità, obbedienza), restare fedeli alle promesse (battesimali, matrimoniali, dell’ordine sacro) e ai doveri di stato, e abbandonarsi alla volontà di Dio, per riceverne la grazia. Solo da Dio vengono l’amore e la pace, non come li dà il mondo, che sprizza irrequietezza (e follia omicida) e tragedie ammantate di buone intenzioni (l’idea).
Dio esiste. E’ tutto quello che noi non siamo (eterno, onnisciente, infinito, onnipotente). Prendendo carne l’ha fatto per redimerla, per riportare tutta la creazione alla perfezione della Sua volontà, ma non senza che la nostra santa libertà possa finalmente sceglierla, rinunciando a Satana.
Il peccato originale ha cambiato la storia e la natura
E’ entrato nella carne
La storia con il peccato originale ha visto una svolta terribile. Dio l’ha permessa, è vero, ma per rispetto alla libertà donata all’uomo, creato a Sua immagine e somiglianza. Quell’uomo, quello creato prima del peccato, non c’è più. Il danno fatto con il peccato originale ha rovinato tutto. E, giova ribadirlo, questo ha avuto ed ha conseguenze in qualche modo biologiche, genetiche e non solo “morali”, di “inclinazione al male”. Il peccato ha introdotto la morte, il dolore, tutte le sofferenze che non sono create da Dio, non c’erano nell’Eden e non vi saranno in paradiso, per chi ci andrà.
Il danno è così grande, che ha bisogno di una riparazione. E così Dio ha pensato uno “strumento” (Maria, l’immacolata) e da lì ha realizzato l’incarnazione di Gesù, per la nostra redenzione.
Nella Volontà di Dio l’amore verso l’uomo aveva già pensato che il Figlio si incarnasse, per essere riportato a Dio. Questo Satana lo sapeva, e da qui l’invidia verso l’uomo e l’odio verso Cristo, cioè l’odio verso Colui che da sempre è stato ciò che Satana non ha voluto servire. Il fatto che Cristo, incarnandosi, abbia dovuto anche redimerci è conseguenza del peccato: ma la volontà del Figlio di farsi carne era già all’inizio, quando Egli già esisteva e creava tutto. Non è necessario avere una visione “amartiocentrica” per concepire l’incarnazione nel volere di Dio; basta sapere quanto Dio ami l’uomo! Ma che Dio ci ama ce l’ha mostrato il Figlio fattosi uomo e crocifisso, che ci ha insegnato a pregare “sia fatta la Tua volontà, o Padre, come in cielo così in terra, per liberarci dal Maligno, ovvero dalle conseguenze dell’inganno di Satana.
Il dogma scomparso e l’obnubilamento del Dio “inutile”
O felix culpa! Adamo ed Eva
Fin dai tempi dell’eresia di Pelagio, anche tra i credenti in Cristo c’è chi ritiene che l’uomo possa salvarsi da sé. Invece l’indispensabilità di Gesù, da vero uomo, è di aver consegnato liberamente se stesso, da vero Dio, lasciando crocifiggere la propria natura umana per la nostra redenzione.
Negando il peccato originale si lascia che la creazione possa essere attribuita al caso, possa essere lasciata al progresso dell’uomo e soprattutto possa fare a meno di Cristo!
Il peccato originale è il punto nodale di un cristianesimo che accetta la rivelazione di Dio e la contempla, annunciandola nella sua purezza, invece di farsene in qualche modo un reinterpretatore, a beneficio delle mode e dei tempi, usando la rivelazione a proprio consumo, come attore utile del/nel mondo.
La Chiesa monastica, interiore, spirituale, annunciatrice della rivelazione, dispensatrice di sacramenti, pur occupandosi dei bisogni degli uomini, è diventata oggi una Chiesa-comunità esteriore, attivista, protagonista e in cerca di un ruolo da protagonista nel supermercato delle opzioni per promuovere l’uomo bisognoso, specie materialmente. E’ diventato protagonista l’umano. E’ finito in ombra Dio.
Il peccato originale rivela invece la necessità di un redentore. Da quella situazione l’uomo da solo non esce ed anzi si avvita sempre di più nel rifiuto di Dio. Dopo 20 secoli di cristianesimo, la cristianità è peccatrice, divisa, confusa teologicamente, evaporata in interi territori di grande tradizione e cultura cristiana.
Gesù e Barabba. O Dio o il mondo
Gesù lo aveva detto: quando tornerò, troverò la fede sulla terra? Siamo salvati, ma siamo salvati perché perduti. Ma chi ha l’umiltà di sentirsi “perduto” se tutti insieme possiamo vincere, nulla ci è precluso e il futuro (la vita) non è un dono ma sarà un nostro prodotto? La rimozione del peccato originale è necessaria a chiunque ha bisogno di rendere non necessario Cristo come unico salvatore. Tolto il peccato originale è facile rileggere la storia in divenire, in chiave evoluzionistica, progressiva, dall’uomo bruto a quello intelligente, non essendoci più il passaggio che dall’uomo perfetto aveva portato a quello abbrutito e imbestialito dal peccato. Ecco così il mito del buon selvaggio, la radice logica di Rousseau e di tutto l’illuminismo (massonico e anticristiano).
La “chiesa universale”, la “neochiesa”, a-dogmatica e di tutti fratelli, quella del Cristo massonico, uomo che parla di amore umano agli uomini, senza pretese di verità differenti dalla filantropia, senza più giudizio sulle forme, perché “ogni amore è amore”, perchè non ha più peccati personali da giudicare, in cui l’inferno è vuoto e si è salvi “automaticamente”, è una grande tentazione e insieme è una grande mistificazione.
La creazione intera attende la rivelazione dei figli di Dio, e geme come per il parto. Il trionfo del cuore immacolato, promesso a Fatima, si realizzerà con il trionfo dei cuori (dell’interiorità degli uomini capaci di vita spirituale) in cui, come in Maria, si vive la volontà di Dio, in purezza, cioè senza riserve, fidandosi, sapendolo il meglio per tutti. Sono cristiano per grazia di Dio. Meriti miei? Vantarne è già un peccato. Cominciò Adamo credendo di fare per il meglio… Ed eccoci ancora qui, “geneticamente modificati”.
La rimozione del Peccato Originale ha scatenato Satana
La caduta dei ribelli (particolare)
Il sinodo di Cartagine, convocato nel 418 d.C. da papa Zosimo contro Pelagio, affermò che è eretico ritenere che la Grazia serva solo a rimettere le colpe e non soprattutto ad aiutare perchè non se ne commettano altre; ed è parimenti eretico ritenere che l’unico scopo della Grazia sia di illuminare l’intelletto nella conoscenza di Dio (un “sapere”) e non piuttosto il donare la forza alla volontà (al “cuore”) per essere capaci di vivere secondo il comandamento dell’amore, al modo di Cristo (non “qualunque amore”, superbamente inteso privo di peccato). Non per i nostri meriti, ma grazie a Dio che è lasciato libero di agire in noi, che Glielo permettiamo! Come Maria, l’Immacolata, priva del peccato, l’umile per antonomasia.
Il peccato originale commesso da Adamo, generò un disastro le cui conseguenze riguardano tutti.
Il Battesimo interviene con una grazia speciale, a motivo della fede in Cristo, anche se non impedisce, dopo questo ingresso nella vita rivolta a Gesù Cristo, Nostro Signore, che altri peccati rivolgano altrove la vita del cristiano.
Essere “di Cristo” permette di aprirci a Lui e di saper discernere il bene dal male, imparando da Lui e non ragionando come il mondo, tuttora sotto il suo principe, Satana, odiatore di Cristo, invidioso dell’uomo, falsario e omicida fin dal principio. Senza la Grazia non se ne esce.
Centoundici anni dopo Cartagine al pelagianesimo era subentrata un’eresia “semipelagiana”: l’uomo, con il proprio libero arbitrio, può convertirsi al bene. La Chiesa riunita ad Orange nel 529 d.C. smascherò l’ingenuità di questa formulazione: accettata la morte fisica come conseguenza del peccato originale, si ritiene il libero arbitrio umano “puro”, esente da quel peccato! Purtroppo non è così: la natura umana è sotto la schiavitù del principe del mondo, non solo le membra, ma anche la mente, con i suoi pensieri. Proprio lì Satana agisce ancor meglio, SE non interviene la Grazia per discernere il bene e il male, nella Verità: l’uomo attuale non è più l’uomo del giorno della creazione, nemmeno dopo la Redenzione.
L’aver sotterrato questa dottrina, ridotta all’insignificanza e ritenuta obsoleta (gli esempi si sprecano), spiega lo stato in cui versa la Chiesa e lo scatenamento di Satana a tutti i livelli. Perciò ogni protagonismo della creatura e ogni ignoranza del Creatore non possono che precipitare l’uomo nelle braccia dell’ingannatore, il principe di questo mondo cacciato per sempre dal “Cielo”. Le anime rischiano di fare questa terribile fine, in eterno, rifiutando l’occasione di scegliere la volontà di Dio e di un posto nel Cielo.
Perché il peccato originale non viene quasi nominato durante i battesimi? Chi l’ha ridotto a una leggenda? Scopriamo chi dice che non c’è bisogno di Cristo come unico salvatore… chi ha bisogno della storia in chiave progressiva… una creatura intelligente che ha bisogno di servitori che la assecondino nel ribellarsi a Chi esiste ed è creatore… E riconosciamo chi la serve. In ogni ambito. Anche dentro la Chiesa.
Gesù moriva “laicamente”, senza miracoli sacri di onnipotenza per sé: ed è esattamente quanto non gli perdonerà mai il settarismo di sempre. Di clericali e di atei. Di ayatollah e di leninisti. Né, tantomeno, il settarismo dei satanisti… Non perdoneranno mai a quel Crocifisso di essersi spogliato del marchio di una religione particolare. Non gli perdoneranno di essersi presentato come il simbolo “laico” per eccellenza, che appartiene a tutti (credenti e non)… Solo il mistero della “debolezza” di Dio, rivelata dalla Croce, segna la fine di tutti i “fondamentalismi”: sia del teismo che dell’ateismo “di Stato”… Perciò Girard parte dalla rivoluzione culturale della Croce (da un Dio, cioè, che non chiede sacrifici, ma che sacrifica se stesso) e, in ragione del “senso antipersecutorio” di questa Croce, ci fa arrivare alle conquiste “laiche” della Modernità. All’oggi, proprio quando si affaccia una diversa categoria del cosiddetto “sacrificio”: quello – ultimo – dei “kamikaze” islamici. Dei terroristi, che arrivano a suicidarsi per odio dell’altro: la caricatura del martirio. E si giunge alla confusione più assoluta sul significato di… “sacrificio”: perché a tanto conduce la potenza dell’odio. Oggi.
Un ricordo del grande pensatoreRenè Girard, l’autore de “Il Capro Espiatorio”, a poco più di un mese dalla scomparsa.
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di Giovanni Frassanito
Il 23 dicembre 1944, il francese Emmanuel Mounier scriveva: “La grande missione che ci attende… sarà una missione di profeti e di scopritori”. In quel dopoguerra del XX secolo, egli testimoniava quindi l’attualità della profezia, e poneva al centro della Storia la tensione fra gerarchia e carisma; fra politica e mistica; fra autorità e verità; fra il Tempio di Gerusalemme e Gesù di Nazareth: a partire dalle visioni messianiche, che avevano fatto da cerniera tra ebraismo e cristianesimo.
Un’opera di Frassanito su Girard
Perciò, Mounier, in quel dopoguerra, proponeva la sintesi fra mistica e ragione. Fra profezia ed azione. E citava – a modello del profetismo impegnato in politica – la santa Giovanna d’Arco “che aveva cominciato a testimoniare le sue voci, prima di farsi generale d’armata”. Perché – secondo Mounier – era stato un certo disimpegno cristiano dai fatti della storia, questa specie di pacifismo apolitico la causa che “fra il 1936 e il 1939 aveva generato la guerra di Hitler”. La tragedia della seconda guerra mondiale.
Mentre Israele ha mostrato di essere «una razza di profeti». Di profeti veri, incarnati nella realtà della storia: come Ezechiele che – in una sorta di folgorazione- svelava, nel V secolo a.C., il ritorno degli Ebrei a Gerusalemme, e la fine dell’esilio babilonese. Lungo i giochi politici di quel tempo, quando vedeva d’improvviso apparire il re persiano Ciro, il liberatore che era ancora lontano, ciò che sfuggiva agli altri: in quell’estasi mistica, paragonabile al fremito di chi scrive con la mano tremante. Oppure di chi è rapito con gli occhi sbarrati. A metà strada fra il “raptus” e la”grazia”. Fra la malattia e il miracolo. Fra l’uomo e Dio.
Generazione di “cattolici democratici” contro il “satanismo”
Un’altra opera di Frassanito su Girard
Eravamo ai tempi del dopoguerra. Quando il movimento dei cattolici italiani era già passato dall’Opera dei Congressi (né elettori né eletti) al Partito Popolare di Luigi Sturzo: travolto poi dal ventennio fascista. E cercava allora di affacciarsi – dopo l’esperienza della Resistenza – alla politica della Democrazia Cristiana. Ai tempi di De Gasperi e di Fanfani. Ma, non trovando in Italia un grande retroterra culturale, quel movimento si rifaceva al pensiero francese di Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier. Alla corrente della nouvelle theologie. Cosicché, fra questi cattolici, c’ero anch’io. Perché era un bisogno particolarmente sentito dalla mia generazione: innestare nella testimonianza di fede religiosa (il nostro sentire di “cattolici”) lo spirito della civiltà moderna (il principio di “razionalità”), che aveva generato le rivoluzioni “liberali” dell’Occidente. E che, perciò, non poteva essere né ateo, da una parte, né fondamentalista, dall’altra. Ed è precisamente quanto poi avvenne con le dichiarazioni del Concilio nel 1965: la Gaudium et Spes e la Dignitatis Humanae.
Era questa esigenza di sintesi culturale il problema avvertito dalla mia generazione di “cattolici democratici”, che uscivano dall’esperienza dell’antifascismo e dell’Azione Cattolica. E si spiega perché – già fin d’allora- io volli fare (al pari di altri) anche una scelta politica: m’iscrissi, giovanissimo, al partito della Democrazia Cristiana e divenni, a vent’anni, il delegato dei giovani democristiani di Lecce.
Cattolico e democratico, quindi, contro la tentazione perversa di legittimare la tirannide e di razionalizzare il male, senza chiamare luce le tenebre e tenebre la luce. Contro la malafede delle ideologie cioè, allora dominanti. Contro l’esaltazione della razza o della classe (per uccidere meglio la “persona” in carne ed ossa) e che arrivava persino a teorizzare – questa volta con il marxismo – le “dittature del proletariato”. Insediatesi, di fatto, come dittature di “Partito”. Il “Nuovo Principe” di machiavellica memoria, secondo l’espressione coniata da Gramsci. Un miscuglio, insomma di machiavellismo e di fanatismo. Ed era malafede: culto della Menzogna, che ha segnato il nostro secolo. Il secolo dell’Anticristo.
Quelle dittature comuniste che – in poco tempo – si erano allargate, inarrestabili, ai tre quarti del pianeta, estendendosi dall’impero sovietico a quello cinese, dilagando in tutta l’Asia, fino aCuba, in piena America Centrale, fino in Germania, spaccando il cuore stesso dell’Europa con il muro di Berlino. Secondo il proclama già lanciato da Lenin a Mosca: «D’ora innanzi la Russia sarà il primo paese per giungere alla rivoluzione mondiale. Sì, sì. Distruggeremo ogni cosa, e sulle rovine costruiremo il nostro Tempio!». Aggiungendo – a scanso di equivoci: «Dio è il mio nemico personale».
A questo punto, macché parlare di ateismo!… molto di più: si trattava di vero e proprio “satanismo”. A livello mondiale: ancor sempre “di Stato”… Cosicché in questo contesto culturale si colloca la mia esperienza di allora. A partire da Maritain e da Mounier.
A distanza di tanti anni, leggo ancora una notizia che riecheggia i motivi di allora: Marcello Montagnana, nipote di Palmiro Togliatti, sarà processato per aver rifiutato di prestare servizio di scrutatore alle elezioni del 27 marzo ’94, adducendo la presenza di un crocifisso appeso alle pareti del seggio elettorale, che – a suo dire – minerebbe il principio della laicità dello Stato (Repubblica, 15/1/96).
Si trattava, in verità, di un’aula scolastica trasformata in seggio elettorale per cui si ripropone la questione circa la compatibilità dell’immagine del crocifisso nelle scuole pubbliche ed il senso, più in generale, dei rapporti fra i cattolici e laici nella società.
Ma resta ancora da chiedersi: rappresenta proprio quel crocifisso – oggi, come ieri – una minaccia alla laicità dello Stato? Tanto più che il nipote di Togliatti ricorderà – nel corso del processo – che fu proprio il Presidente della Repubblica, il cattolico Scalfaro, ad affermare nel messaggio di fine anno: «Lo Stato è laico, nessuno ha il diritto di apporvi il marchio della propria fede…».
Il primo (e l’ultimo) Capro Espiatorio: Gesù
Renè Girard
In proposito, non si deve mai dimenticare che il cristianesimo è nato da un processo penale, che si concluse con una condanna a morte dell’imputato che era Innocente: sotto accusa diproclamarsi “Re dei Giudei”.
Avvenne che quel Gesù – condannato dal Sinedrio, d’intesa con il rappresentante dell’Impero di allora – è divenuto il simbolo eterno di tutta quanta questa nostra Storia. Perché essa ha bisogno davvero di tanto: di un Capro Espiatorio (tanto meglio se innocente). Ha bisogno d’immolare una qualche Vittima purchessia, tanto è urgente il bisogno di ricompattare “intorno ad Essa” l’unità lacerata, mettendo “tutti contro uno”; e di ricucire così la crisi provocata dal conflitto sconvolgente fra i tempi del vecchio mondo che muore, e quelli del nuovo che arriva.
Ecco il rito ancestrale del Capro Espiatorio. Ecco – focalizzato – l’inconscio meccanismo che mette “tutti contro Uno”, mentre questo Uno, pagando per tutti, va assicurando l’impunità degli altri: cosicché si capisce bene che questo “Rito” piaccia tanto e che sia destinato a ripetersi puntuale, a certe scadenze, essendo frutto di Violenza combinata al Sacro. Di quella “sacraviolenza”, da cui Gesù volle – appunto – redimere il mondo.
Avvenne perciò che la nostra storia finì – in mancanza d’altro – per sacrificare addirittura un Innocente. Di più: col condannare il Giusto, per eccellenza. Persino, Dio stesso. Ed arrivò così alla ribalta il sangue dell’Agnello sacrificale (ecce Agnus Dei), nudo e seviziato, appeso ad un palo. Gesù Crocifisso: a significare tutta la Storia delle ingiustizie umane. Dei tanti delitti, travestiti di sacrificio immolato agli dei, mascherati di processi e di menzogne. Tutta la storia degli assassinii ricorrenti, persino legalizzati, camuffati di “sentenze”… che giungevano ad uccidere il figlio dell’Uomo ed ad un tempo il figlio di Dio.
Il senso anti-sacrificale e laico della Croce
Renè Girard
Il mistero di qualsiasi altro “sacrificio” consumato nel Tempio (sacrumfacere) restava, così, definitivamente smascherato. Vale a dire: con il processo a Gesù, il “meccanismo persecutorio” si rivelava finalmente per quello che era, dissacrando il mistero del “sacro” (misterium iniquitatis). Ed è, esattamente, quanto accadde con la Crocifissione di Cristo. Atto, per eccellenza, di svelamento antisacrificale: e, perciò, “laico”. Il solo, profondamente, laico: sicché “il velo del Tempio si squarciò a metà, da cima a fondo” (Mc.15,38), denudando (e svergognando) tutte le menzogne “processuali”, che continuano ancora ad inscenarsi nel “tempio” dei nostri Tribunali.
Per la prima volta nella storia, avvenne allora che l’omicidio non tollerò più di essere camuffato con la messinscena di un “processo”. E tutto cambiò, da allora in poi. A questo punto non c’è più menzogna che tenga. Non c’è più margine per mistificare la verità. L’esecuzione di quel tipo di condanna si chiama violenza. E basta. Perché qui l’imputato condannato è – addirittura – il Santo dei santi. È Dio stesso: e la maschera venne così a cadere. Definitivamente.
Anche perché, per la prima volta, quella violenza non può più dirsi “sacra”. Ordinata cioè da Dio in persona. Una sorta di vendetta divina. Anzi – ad evitare equivoci – Dio, addirittura, non c’era durante la Crocifissione, secondo le parole di Gesù morente: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Gesù moriva “laicamente”, senza miracoli sacri di onnipotenza per sé: ed è esattamente quanto non gli perdonerà mai il settarismo di sempre. Di clericali e di atei. Di ayatollah e di leninisti. Né, tantomeno, il settarismo dei satanisti.
Non perdoneranno mai a quel Crocifisso di essersi spogliato del marchio di una religione particolare. Non gli perdoneranno di essersi presentato come il simbolo “laico” per eccellenza, che appartiene a tutti (credenti e non): simbolo dell’Uomo universale che conduce dalla menzogna alla Verità; dalla persecuzione alla Giustizia; dalla barbarie alla Civiltà: “lo sono Re, per testimoniare la Verità” (Gv. 18,37), rispondeva Gesù a Pilato, nel rito di quel processo.
Coglierne il significato non è roba da poco: valeva la pena discuterne allora, e vale la pena discuterne oggi. Perché solo il mistero della “debolezza” di Dio, rivelata dalla Croce, segna la fine di tutti i “fondamentalismi”: sia del teismo che dell’ateismo “di Stato”.
Non c’è altra strada. Soltanto lo “scandalo” di Dio condannato e messo in Croce può smascherare la Violenza travestita di Menzogna. Ritualizzata cioè nel processo. La sola Violenza che mi fa paura, davvero.
E si arriva a capire, così, l’antropologia di René Girard.
Il significato antipersecutorio della Croce
Nella Terza Età della storia salvifica – secondo Giacchino da Fiore – l’umanità comprenderà finalmente il “senso”, unitario e più vero, di tutta la Bibbia: sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Perché è dono proprio dello Spirito l’illuminazione della Verità, tutta intera. Secondo il processo a Gesù: “Io sono re, per testimoniare la Verità”. Al che Pilato, confuso, non capirà più niente: “La Verità?! E cosa è mai la Verità?” (Gv.18,37).
E’ questa la “Verità”, di cui parlava Gioacchino da Fiore. L’intelligenza più profonda della Parola, che si conclude con il testamento di Gesù: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi”.
In “sacrificio”. Forse non è un caso che intorno al significato di questa parola-chiave, “sacrificio”, si svolge oggi tutta l’antropologia di René Girard. Vale a dire: se essa significa sacrificare “se stessi”, oppure sacrificare “gli altri”. Scegliere cioè fra due significati diametralmente opposti. Inconciliabili.
Perciò Girard parte dalla rivoluzione culturale della Croce (da un Dio, cioè, che non chiede sacrifici, ma che sacrifica se stesso) e, in ragione del “senso antipersecutorio” di questa Croce, ci fa arrivare alle conquiste “laiche” della Modernità. All’oggi, proprio quando si affaccia una diversa categoria del cosiddetto “sacrificio”: quello – ultimo – dei “kamikaze” islamici. Dei terroristi, che arrivano a suicidarsi per odio dell’altro: la caricatura del martirio. E si giunge alla confusione più assoluta sul significato di… “sacrificio”: perché a tanto conduce la potenza dell’odio. Oggi. In piena “età dello Spirito Santo”, secondo la teologia medioevale di Gioacchino da Fiore, che “profetizza” – a distanza di secoli – l’antropologia contemporanea di René Girard. Alla ricerca del significato di “sacrificio”.
Vale a dire: delle radici più profonde di questo culto religioso. Fino all’età moderna che scava nella preistoria dell’umanità. Fino all’antropologia di Darwin; e fino a quella di Girard. Fino a queste diverse letture delle nostre origini. Da un’antropologia si parte; ad un’altra si arriva: di mezzo, c’è il paganesimo razzista di Nietzsche ed il classismo comunista di Marx. Di derivazione, entrambi, radicalmente darwiniana. Si tratta di quel fenomeno ideologico che si chiama “darwinismo sociale”: sia nella versione nazista, sia in quella sovietica.
Scriveva Nietzsche:
«L’individuo è stato ritenuto dal cristianesimo così importante, cosi assoluto, che non poté più sacrificare. Ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani. La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie. In questo pseudo umanesimo che si chiama cristianesimo, si vuole giungere appunto a fare sì che nessuno venga sacrificato» [Nietzsche, Frammenti postumi].
L’Evoluzione di Darwin: Nietzsche e Marx, Stalin e Hitler
Si noti in questo brano di Nietzsche la ripetizione insistente della parola “specie” (collegata a “sacrificio”) quasi a voler richiamare il titolo dell’opera “L’origine delle specie”, pubblicata da Darwin nel 1859. È questo il clima culturale dell’epoca.
Così sarà pure per il materialismo dialettico di Marx, che derivava, anch’esso, dall’evoluzionismo darwiniano. Perché a Marx serviva prima ridurre l’uomo al rango di una bestia (a quello della “scimmia”), per poi sostituire l’istinto del cannibalismo (secondo la legge «del pesce più grosso che mangia il più piccolo») chiamato “selezione della specie”, con il classismo e la “lotta di classe”. Stregato, al pari di Nietzsche, dall’idea darwiniana di «selezione». Perché essa indica – dapprima – una scelta fra ciò che è “adatto” e ciò che è “inadatto” all’ambiente. Poi, via via, fra il “sano” e il “malato”; fra il “forte” e il “debole”. Ed arriva quindi all’esasperazione «selettiva», fino al «cannibalismo». Tout court.
Cosicché, al funerale di Marx, Engels aveva già annunciato il suo piano ideologico: «Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana». Darwin e Marx. Natura e Storia: in unità, l’una e l’altra, di selezione sacrificale“. Essendo l’uomo un animale. Un “cannibale” come tutti gli altri. Non più fatto “ad immagine” di Dio.
Insomma, non esisterebbe frontiera nell’evoluzione fra il mondo inorganico e quello organico. Né esisterebbe frontiera fra la natura organica e il comportamento umano: in virtù dello stesso “darwinismo sociale”. Il mito dello scientismo moderno.
La Repubblica del gennaio 2006 ha pubblicato un servizio giornalistico, che dimostra quanto l’idea dell’umanoide scimmiesco avesse ubriacato, negli anni Trenta, gli esperimenti scientifici di laboratorio nell’Unione Sovietica. In concorrenza con quelli nazisti del Dottor Mengele, che progettavano anch’essi – su commissione di Hitler- un tipo di «uomo nuovo». Risulta, infatti, che Stalin finanziò un piano per ottenere un incrocio genetico (fra l’uomo e la scimmia) da reclutare nell’Armata Rossa; da sfruttare come forza lavoro “usa e getta” nelle regioni del polo artico; nonché per l’espianto di organi (secondo notizie rivelate della rivista russa Moskovsij Kosmomolets). Tale progetto – destinato a fallire per incompatibilità cromosomica – ripiegò poi nelle deportazioni organizzate da Stalin nei gulag sovietici.
Dal canto suo, ossessionato dallo stesso darwinismo sociale, Hitler aveva proclamato: «L’intero universo sembra governato da una sola idea. Esiste un’eterna selezione in base alla quale, alla fine, il più forte ha diritto di vivere mentre il più debole soccombe».
Alla fine di Nietzsche e alla fine di Marx, di Hitler e di Stalin; di nazismo e di comunismo; di ideologie «sacrificali» degli ultimi due secoli, c’è oggi René Girard.
Solo la croce è laica
Vale a dire: c’è, sì, la mitologia del «sacrificio» come teoria generale sulla genesi violenta di tutti gli ordini culturali; di tutte le religioni; e di tutte le ideologie, che reclamano sempre Vittime da immolare. Ma con una eccezione: perché – di converso – c’è pure il senso «antipersecutorio» della croce di Cristo. L’eccezione di un Dio che non è più «sacrificatore», ma che, incarnatosi, diventa Vittima «sacrificata». Secondo la legge di questo nostro mondo. L’eccezione che le smaschera tutte. Le scompagina tutte. Le rivoluziona tutte: culture, ideologie, religioni. Cosicché “solo la Croce è laica”. Di contro all’antropologia del “sacrumfacere”; del sacrificio; della violenza divinizzata. Sacralizzata. Di contro all’universale menzogna della persecuzione. Camuffata in senso religioso: come atto di culto da offrire a Dio. Ad Allah (che è il più grande).
C’è oggi René Girard. Non più Nietzsche. Dopo il processo di Norimberga e la nascita dello Stato di Israele. Non più Marx. Dopo il miracolo dell’89, e il crollo del comunismo profetizzato a Fatima. Dopo questa storia della Salvezza. C’è oggi la “svolta” antisacrificale di René Girard. Rispetto a Nietzsche; e rispetto a Marx: a corollario di Darwin. Rispetto alla cultura sacrificale degli ultimi due secoli.
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René Girard, filosofo francese, è nato ad Avignone nel 1923. Diplomato presso l’Écoledes Chartes, si è trasferito negli Stati Uniti fin dal 1947 e vi ha percorso l’intera sua carriera universitaria, dalla Indiana University alla Johns Hopkins University, stabilizzandosi infine all’Università di Standford in California. Le sue opere sono ben note in tutto il mondo e il suo pensiero, nella prospettiva scientifica, filosofica e antropologica moderna, ha interessato tutta lacultura contemporanea. Esso è fondamentale per la disamina critica compiuta sulle teorie di moltipensatori del passato, da Rousseau a Nietzsche, da Marx a Engels, da Freud a Durkheim, e per le personali controdeduzioni che abbracciano l’essere umano nel suo dualismo antropologico cristiano, costituito di anima e di corpo. Fra le principali opere tradotte in italiano, ricordiamo: Vedo Satana cadere come la folgore; La violenza e il sacro; Il capro espiatorio, L’antica via degli empi; Origine della cultura e fine della storia.
René Girard stato insignito, di recente, del titolo di “Accademico di Francia” e, come tale, annoverato fra “gli immortali”. E’ morto il 4 novembre di quest’anno, a 92 anni.
Ma il 25 dicembre è o non è il “compleanno” di Gesù? E si può sapere finalmente quando è davvero nato? E dove di preciso? Che età aveva veramente nelle tappe principali della sua parabola umana? E Giuseppe e Maria? La profezia dell’Antico Testamento e la cronaca del Nuovo coincidono in Gesù il Messia? Proviamo un attimino a riportare Gesù all’anagrafe… .
. di Ruggero Sangalli
La data della nascita
Il Natale è una festa molto strana. Tutti si scambiano regali, ma in genere l’unico al quale molti non preparano nessun dono è il vero festeggiato. Natale è il compleanno di Gesù. Non solo: è l’evento che ha prodotto un riferimento cronologico al calendario, prima e dopo l’anno dell’Incarnazione.
Stiamo infatti per completare il 2015° anno “dopo Cristo” del computo di Dionigi, che in effetti fu abbastanza preciso: gli si può solo imputare un errore giustificabilissimo di un anno in meno, non certo di sei o sette come sproloquiano molti esperti, esegeti inclusi.
E’ lecito qualche dubbio anche sulla data esatta del 25 dicembre: in effetti c’è chi vi ha visto un riferimento al solstizio d’inverno (ma allora il giorno 25 non andrebbe bene), chi ad altre feste pagane (ma il “Sol Invictus” fu festeggiato dai Romani il 25 dicembre solo dal III secolo dopo Cristo), chi ai nove mesi dopo il 25 marzo (considerato prima la data della creazione e poi dell’annunciazione), chi ancora come una reminescenza del 25 di Kislev, inizio della festa delle luci, che ben si addice al venire della Luce del mondo!
L’ipotesi più sensata sembra l’ultima: per quanto difficilmente sovrapponibile a una data fissa in un calendario solare, riferendosi -come per la Pasqua- a un calendario scandito dalla luna. Lo è anche perché tutte le date più significative della vita terrena di Gesù coincidono con le festività ebraiche e questa (dedicazione del tempio che fu profanato) ben si addice al “tempio di Dio”, di Gesù, Nuovo Adamo.
Pur lasciando qualche margine di incertezza sul giorno esatto, è tuttavia accertato che si trattasse del periodo in cui festeggiamo, a fine anno, ed è possibile stabilire con precisione (attraverso almeno una dozzina di solidi indizi) anche l’anno: il 2 a.C.
La Vergine Maria, mamma di Gesù, all’epoca aveva già compiuto quindici anni. Nove mesi prima, ancora quattordicenne, ricevette l’annuncio dell’Angelo. Maria sarebbe quindi nata nel 17 a.C. e la sua Immacolata concezione risale (di altri nove mesi anteriore) alla fine del 18 a.C.
Giuseppe non era anziano, ma poteva avere una trentina d’anni, età “giusta” per un isreaelita per dedicarsi alle “cose sacre” come era un matrimonio. La differenza di età tra i due, di una quindicina d’anni, non giustifica l’iconografia di un Giuseppe con la barba bianca. [per ulteriori, si veda Messori, qui]
L’età di Gesù
Per fissare l’età di Gesù si possono circoscrivere gli anni possibili attraverso alcuni punti fermi:
-dalla storia dei Romani sappiamo che Ponzio Pilato fu prefetto della Giudea e fu in carica dal 26 d.C. al 36 d.C.
-dal vangelo di San Luca sappiamo che la predicazione di Giovanni prese avvio nel XV di Tiberio, cioè tra la metà di settembre del 28 d.C. e la metà di settembre del 29 d.C.
-Gesù fu battezzato quando Giovanni era già abbastanza famoso ed era seguito da dei discepoli, alcuni dei quali saranno i primi a mettersi alla sequela di Gesù.
-dal vangelo di San Giovanni sappiamo che la “vita pubblica” di Gesù è racchiusa in tre Pasque ebraiche: da quella a ridosso del miracolo di Cana, a quella decisiva per la redenzione.
-dai quattro vangeli sappiamo con certezza che Gesù fu crocifisso di venerdì, poco prima che iniziasse la festa di pasqua, che gli Ebrei celebrano a partire dal giorno 15 nisan.
-dalle tradizioni ebraiche sappiamo che il giorno in cui si immolavano gli agnelli era il 14 nisan; la pasqua ebraica coincide con la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera.
-nel calendario ebraico, calendario lunare, il 14 nisan coincide con la luna piena; in ogni calendario considerato i giorni della settimana sono sette e non ne è mai stato saltato uno…
-dai dati della NASA sappiamo che il 14 nisan coincidente con un venerdì ci fu (dopo il 26 e fino al 36 d.C.) soltanto negli anni 33 e 36 d.C.
-di San Paolo è fissabile l’incontro con il procuratore Gallione, inviato a Corinto nell’anno della XXVI acclamazione dell’imperatore Claudio concomitante con la sua XII acclamazione tribunizia, cioè nella primavera dell’anno 51 d.C., quando Paolo era già da un anno e mezzo a Corinto. Il concilio di Gerusalemme è quindi del 49 d.C. e i 14 anni descritti nella lettera ai Galati anticipano la conversione ad almeno il 35 d.C. (in realtà avvenne già all’inizio del 34 d.C.)
-Gesù lasciò questa terra ascendendo al cielo, quaranta giorni dopo la sua resurrezione avvenuta a inizio aprile, nel maggio del 33 d.C.
-le tre Pasque descritte nel vangelo di San Giovanni sono quelle del 31, del 32 e del 33 d.C.
-Gesù entrò in scena (Luca scrive “trentenne”), dopo il battesimo al Giordano, già nel 30 d.C.
-questo porta la data di nascita al 2 a.C. (l’anno zero non esiste e si passa dal 31/12/1 a.C. al 1/1/1 d.C.), durante la festa delle luci (Encenie) celebrata per otto giorni dal 25 del mese di kislev.
-Gesù nacque all’epoca in cui nascono gli agnelli, fine anno, durante una festa nota per la luce e per la gioia (si legga l’inizio del libro dei Maccabei), festa di dedicazione del tempio.
-Gesù alla sua morte/resurrezione aveva 33 anni e quattro mesi di età, come ha sempre sostenuto la tradizione.
Un interessante spunto cronologico deriva dai due scritti lucani, nel cui incipit in entrambi i casi l’evangelista Luca si rivolge a un illustre Teofilo. Stesso interlocutore, stesso periodo? E’ vero per la prima parte degli Atti, che sono in continuità con il Vangelo, riprendendo con l’Ascensione di Gesù i racconti della settimana santa. Dal capitolo 11 degli Atti Luca scrive in prima persona: è quindi un testo aggiuntivo a quello preesistente, necessariamente (il secondo) scritto attorno al 60 d.C., ma comunque molto dopo il vangelo e i primi capitoli degli Atti degli apostoli che risalgono -al più tardi- all’inizio degli anni 40 del primo secolo. Dal 47 d.C. e fino al 59 d.C. il testo degli Atti si interseca perfettamente con quelle lettere paoline che furono scritte in quegli anni.
I luoghi del bambino Gesù
Allora in questo Natale è bello soffermarci con un occhio più attento alla storicità dei vangeli dell’infanzia, scoprendoli senza contraddizioni e prodighi di indizi per chi voglia approfondire.
Gesù nacque a Betlemme (città di Davide) di Giudea, come profetizzò Michea vissuto sette secoli prima di Cristo, all’epoca in cui profetò anche Isaia. Non sfugga l’insistenza di San Matteo sul compimento delle profezie. Geremia, Ezechiele e Zaccaria parlarono del germoglio e del buon pastore. Osea del ritorno dall’Egitto. Isaia in particolare parlerà del “germoglio dal tronco Jesse” riunendo due caratteristiche geografiche di Gesù: con Jesse rimanda a Davide e a Betlemme. Con la parola “germoglio” (in ebraico neser) alla ben più sconosciuta Nazaret! La famosa stella dei Magi rimanda alla profezia di Balaam nel libro dei Numeri (capitolo 24, la stella che spunta da Giacobbe) e di lì ancor prima alla tribù di Giuda (Genesi 49).
L’evangelista Matteo descrive l’infanzia di Gesù con 30 versetti (gli ultimi 7 del capitolo 1 e tutto il capitolo 2), mentre Luca ne usa 126 (tutto il capitolo 1, prologo scuso, più tutto il capitolo 2). Luca amplia l’orizzonte a qualche mese prima di Matteo (dettagliando la vicenda di Zaccaria, Elisabetta e Giovanni), aggiungendo poi un episodio del tempo in cui Gesù fu dodicenne. Nel restante arco temporale, che si sovrappone a quello descritto da Matteo, Luca inserisce cinque preghiere: la prima parte dell’Ave Maria, il Magnificat, il Benedictus, l’inizio del Gloria a Dio ed il Nunc dimittis (complessivamente una trentina di versetti). I versetti dedicati al tempo dal ritorno di Maria a Nazaret -dopo essere stata da Elisabetta- al Natale e alla presentazione al tempio, sono soltanto i primi 21 del capitolo 2. Nel riquadro sono indicati i versetti relativi all’arco temporale comune ai due racconti, che è quello dall’annunciazione (fine inverno del 2 a.C.) al ritorno a Nazaret dopo la fuga in Egitto (ipotizzabile avvenuta nel 1 d.C.).
Osserviamo ancora nel dettaglio cronologico, forti degli indizi raccolti, i due racconti evangelici:
– Luca 1,5-56 descrive un periodo che va dal settembre del 3 a.C. all’Annunciazione, già nel sesto mese di Elisabetta (tra febbraio e marzo del 2 a.C.).
Matteo non ne scrive. Luca dice che il nome “Gesù” è suggerito a Maria.
– Matteo 1,18-24: presumibilmente tra l’Annunciazione e la nascita di Giovanni (fino al giugno del 2 a.C.). Ci sono il coraggio e la difficoltà di Giuseppe. Luca non ne scrive.
– Luca 1,57-80, giugno del 2 a.C.: nascita di Giovanni. Matteo non ne scrive.
– Luca 2,1-7, fine autunno del 2 a.C.: viaggio a Betlemme. Matteo non contraddice.
– Matteo 1,25: Natale. Giuseppe crede alla verginità di Maria. E’ lui a chiamare Gesù il bimbo.
– Matteo 2,1: Natale. A Betlemme, Erode è vivo.
– Luca 2,8-20: Natale. Protagonisti la luce e i pastori, la notte della nascita.
– Luca 2,21: otto giorni dopo, la circoncisione. Matteo non ne scrive.
– Luca 2,22-38: quaranta giorni dopo il Natale (già nel 1 a.C.) c’è la presentazione al Tempio.
E’ logico (in inverno, accudendo un neonato e con parenti in città) che la Sacra Famiglia abbia atteso l’appuntamento senza allontanarsi da Betlemme. I Magi non erano ancora giunti.
– Matteo 2,1b-12: arrivano i Magi, seguendo la “stella”. Come è logico che sia, Gesù non è più nella mangiatoia, ma in una casa (Mt 2,11). Siamo già nell’anno 1 a.C. da qualche mese.
– Matteo 2,13-15: fuga in Egitto. Non necessariamente molti mesi dopo, sicuramente non prima dei quaranta giorni attesi per la presentazione al Tempio e nemmeno prima dell’arrivo dei Magi. Tuttavia ancora nel 1 a.C.: Erode è ancora vivo (morirà infatti all’inizio del 1 d.C.) e sul finire della vita Giuseppe Flavio lo descrive “in preda alla follia”.
– Matteo 2,16-18: strage degli innocenti, avvenuta durante l’anno 1 a.C. Luca non ne scrive.
– Matteo 2,19-23: ritorno a Nazaret. Ogni anno dal 1 d.C. (ma prima del 6 d.C., anno di esilio di Archelao) sarebbe potenzialmente adatto al rientro.
– Luca 2,39-40: anche per Luca poi la famiglia si stabilisce a Nazaret. Non c’è contraddizione.
– Luca 2,41-52: un episodio della vita di Gesù dodicenne (nel 12 d.C.).
Senza contraddirsi mai
Dodici anni è l’età che segnava il passaggio dalla fanciullezza all’età degli obblighi della Legge.
La fedeltà alla Legge è stata sin qui garantita dalle usanze dei genitori: d’ora in poi è Gesù che deve occuparsi in proprio «delle cose del Padre mio». Il giovinetto perduto e ritrovato tre giorni dopo nel Tempio di Gerusalemme, 21 anni dopo, sempre a Gerusalemme, sembrerà “perduto” per essere ritrovato il terzo giorno. Anche allora, come 21 anni prima Giuseppe e Maria, i discepoli di Gesù stenteranno a capire la croce: «Perché ci hai fatto questo?».
È evidente che chi ha scritto per secondo conosceva ciò che aveva già scritto il primo e si limita a integrarlo, senza alcun bisogno di ribadire e tanto meno di contraddire! Nessuna delle informazioni dei due Vangeli è banalmente ripetitiva, ma anzi aggiunge particolari inediti.
Le due genealogie, lungi dal contraddirsi, sviluppano il medesimo tema: Gesù è annunciato da tutto l’Antico Testamento. Partendo da Abramo, San Matteo inanella 42 generazioni, a gruppi di 14. San Luca invece risale da Abramo per ancora 21 generazioni fino ad Adamo per collegarsi direttamente a Dio.
Scritti indipendenti elaborati anni dopo da comunità con “intenti pastorali differenti”? Improbabile. Non c’è nulla di fiabesco, mitologico o moralistico, bensì vi si trovano numerosi riscontri storici per ogni singolo dettaglio.
Ci sono anche alcune peculiarità proprie ai due racconti e loro autori: in Luca abbonda la visuale femminile, mentre in Matteo quella maschile; l’angelo Gabriele aveva detto a Maria che il bambino si sarebbe chiamato Gesù e Giuseppe dà proprio questo nome al neonato; in Luca l’angelo si rivolge a interlocutori desti (Zaccaria, Maria, i pastori), mentre in Matteo l’angelo del Signore suggerisce il da farsi durante il sonno (ben quattro volte quello di Giuseppe e in un caso nel sonno dei Magi, almeno uno di loro, di cui per altro i vangeli non dicono quanti fossero…).
È un elemento comune la presenza degli angeli, mentre differisce la modalità di palesarsi alla creatura umana. Le informazioni riguardanti Maria derivano da ricordi di prima mano della stessa madre di Gesù, ancora presente tra gli apostoli quando Luca svolse la propria raccolta di informazioni; mentre il racconto di Matteo si rifà a elementi più pubblici (Erode, la strage degli innocenti, i Magi, la stella) noti anche a un numero di testimoni certamente più ampio.
«Mastino, che notizie porti da Roma?» mi domandano in coro, in un moto di angoscia collettiva. «Roma è distrutta, il papa è morto, la tomba di Pietro è vuota». Sento pianti sommessi nella folla. E adesso cosa succede?, mi chiedono smarriti.
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il Mastino
Qualcuno me lo ha fatto notare, io stesso ne sentivo una sorta di dovere morale: scrivere un quasi scalfariano “sermone” natalizio. Ma per dire cosa? Più che non aver nulla da raccontare, erano fin troppe le cose da narrare: da dove cominciare? Quali fatti selezionare? Come rielaborarli in modo incisivo? È allora che un pigro come me si arrende: i pigri parlano quando non c’è nulla da dire, non quando c’è troppo. Onde, mi sono arreso: non scrivo nulla.
Mi è rimasto impresso quando, ridendo, Antonio Socci mi domandò «stai prendendo nota di tutto? Occorre annotare ogni cosa: per un domani. Domani, quando tutto sarà passato, dovremo rendere testimonianza degli accadimenti paradossali di questi tempi, dei quali siamo stati testimoni, vittime, capri espiatori anche. Non ci si crederà, ma sarà bellissimo raccontarlo». Sperando ci sia rimasto qualcuno ad ascoltare.
Ma insomma, il fatto è che sto scrivendovi per dire che non ho nulla da dire, essendo troppe le cose che andrebbero dette. Ma quando le parole finiscono – essendo il numero delle parole inferiore al numero dei fatti, di questi tempi –iniziano i sogni.
Già, perché di un sogno nella notte di questa Vigilia voglio brevemente narrarvi, sogno in senso letterale non metaforico, fatto onirico.
Qualcuno mi spiegava che i sogni sono di tre tipi: «Se il sogno è da attribuirsi al classico peccato sopra la cintola o gastrimargico, non ha significato, reminiscenze psicologiche. Se il sogno è confuso, turbato, è un incubo malefico. Se invece è limpido, chiaro e ben impresso, quasi a rivederlo, ha un senso. In questo caso ogni dettaglio ha valore, letterale o simbolico…».
Sono stato sino a tardi a leggere, il libro di Milly Gualteroni “Strappata all’abisso: dagli psicofarmaci alla fede”, consigliato da Messori – bello e terribile, ve ne dirò a suo tempo. Era già l’alba quando mi sono assopito, profondamente.
Ricordo che è stato prima di svegliarmi, e ho come l’impressione sia stato un sogno lunghissimo, pieno di accadimenti, dettagli, che non ho voglia di riportare alla mente e rievocare.
Vengo al fatto onirico.
Anche in questo sogno è la vigilia di Natale, è notte fonda, di un umido freddo: la messa “della comunità dei cristiani” – chissà perché penso questa formula nel sogno – si celebrerà a un’ora indeterminata della notte, in un posto che non è ancora chiaro. Mi aggiro per questo paese che riconosco essere meridionale, mi pare la città di Mesagne, presso Brindisi, è molto vecchia, non ha nulla di moderno è così come poteva apparire 100 anni fa, ma è piena di cattedrali gotiche, guglie, chiese romaniche, barocche, e sono tutte vuote, chiuse, spente.
La città è vuota, illuminata solo da flebili e sporadiche luci giallastre e celestine smerigliate dalla nebbia fluttuante. Sembra una città settecentesca dopo la peste, dove tutti sono scappati, ed è silenzio, desolazione, solitudine e morte. Eppure, paradossalmente – con amarezza lo noto – su alcune rarissime case sono accese delle lucine natalizie.
Giunge alle mie spalle un cardinale, giovane, molto giovane e nero, che sembra conoscermi bene, è vestito come me, da laico, infagottato tra i piumini, le sciarpe, i cappelli di lana. Mi prende sotto braccio, quasi a sedare i brividi di freddo.
«Laddove vedi delle lucine natalizie sulle porte, lì abitano ancora dei cristiani, ma non deve sapere nessuno del significato: è per riconoscerci tra di noi», dice il cardinale nero. Camminiamo, camminiamo in questa città desolata, soli, in cerca di qualcosa, di una meta, di un segno che ci indichi che l’abbiamo raggiunta.
Stiamo cercando una chiesa in particolare, tra tutte quelle, non ne conosciamo il nome, ma avrà delle lucine natalizie accese su una finestrella in cima a un campanile le cui campane, come per le altre chiese, sono state staccate e fuse. Dopo un breve peregrinare la troviamo, è una chiesa tipicamente meridionale, settecentesca, sobria, sulla facciata le statue degli apostoli Pietro e Paolo.
Ci accostiamo di soppiatto, come clandestini. Spunta fuori qualcuno dall’ombra e ci stringiamo spaventati col cardinale: «Non vi spaventate» sussurra quello «sono un cristiano: vi attendevamo».
All’improvviso mi rendo conto che in questo panorama desertificato e silente, non sono triste, ma sprizzo gioia da tutte le parti, persino i brividi di paura si fanno vibrazioni positive. Questo fare da braccati, quest’atmosfera di proibito, questa sensazione di essere eversivi, mi eccita. Ma perché c’è quest’aria? Ancora non ne sono del tutto consapevole, nel sogno.
L’omino ci fa strada nel buio, ci porta alle spalle della chiesa e ci apre una porticina che affonda nell’asfalto. «Qui la chiamiamo grotta, è sotto la chiesa, ci riuniamo lì, sono tutti lì: vi aspettano» sussurra pianissimo, come qualcuno potesse sentirci.
Ci curviamo e scendiamo, ho un sentore di cera che brucia nel mentre. Quando all’improvviso sento un’aria calda e fresca insieme che mi carezza il volto: mi trovo dinanzi a un’amplissima antica sala rupestre, risalente ai primi secoli so, placcata di maioliche lise e lustre opera di monaci basiliani dell’epoca. E illuminata da centinaia di candele, solo candele, ciascuno ne porta una.
«Mastino… Mastino… è il Mastino, è vivo», sento dire a destra e manca. E lo pronunciano come un gran sollievo. Mi si accostano, mi sento abbracciare forte, prendono le mie mani, è tutta gente che sta aspettandosi qualcosa di grosso da me. Man mano che mi si avvicinano, alla luce della candela che portano, distinguo tanti volti sconosciuti e soprattutto conosciuti: sono cattolici, amici cattolici del mio facebook, gente che ho conosciuto tramite i miei scritti, che interagisce con me tramite internet.
«I vecchi, dove sono i vecchi?» chiedo a tutti questi presenti, giovani tutti quanti: «Sono morti, Mastino, sono stati i primi ad essere abbattuti: siamo rimasti solo noi perché potevamo correre e nasconderci».
Sento i loro cuori, che battono all’unisono nel silenzio e poi dico a tutti “Ascolto il vostro cuore”. E loro tacciono e danno voce solo al battito cardiaco che mi trasmette il suo messaggio unanime. Osservo i loro sguardi: hanno la stessa espressione di quando, in tempi senza cellulare, ti perdevi in una città sconosciuta e lontana, e ti sembrava di affogare nell’angoscia e nel panico, e dopo tanto penare e vagare d’improvviso ti imbattevi, come una grazia celeste, nel volto di uno che conoscevi. Un amico di antica data. Ecco, questo sento nei loro sguardi che mi puntano: cercano la speranza.
«Mastino, che notizie porti da Roma?» mi domandano in coro, in un moto di angoscia collettiva. «Roma è distrutta, il papa è morto, la tomba di Pietro è vuota». Sento pianti sommessi nella folla. E adesso cosa succede?, mi chiedono smarriti. Il giovane cardinale nero che nessuno sembra conoscere, fa un gesto come a dire, “non ti esporre tu, adesso parlo io”.
«Ora succederà come successe all’inizio e tante volte è successo: festeggeremo il santo natale dei cristiani in questa catacomba, finalmente tra di noi, solo noi suoi seguaci».
Tutti gli sguardi – sto vedendo solo gli occhi, nella penombra – si spostano dal cardinale su di me: «Siamo i primi cristiani un’altra volta, non gli ultimi. Questa è una catacomba. Pietro non muore, ed è qui», indico il cardinale, Habemus Papam! «Ora con gioia celebreremo questa nostra natività!». Una grande euforia si propala nell’aula catacombale, la gioia esplode, ci sentiamo tutti una famiglia davvero, come i primi apostoli, è bellissimo essere cristiani clandestini, delle catacombe, solo noi, e siamo tutti quanti: c’è l’entusiasmo di quando si deve cominciare insieme a creare una grande cosa con lo spirito dei pionieri. Ci facciamo battute l’un l’altro sul fatto che se mettiamo la testa fuori può darsi ce la tagliano, che se ci beccano ci fanno la pelle a tutti. Ma la gioia non si spegne, anzi si fa ilarità: persino della morte si ride, a crepapelle. Siamo i primi di nuovo, non gli ultimi.
Il cardinale che ormai è Pietro siede a capotavola e noi tutti intorno, a condividere la mensa e la sorte di Cristo.
Ci addormentiamo tutti felici nella navata della chiesa superiore, pieni di fervore, invasati di Spirito, e contenti all’idea che bisognerà staccarsi in gruppi e fondare ovunque piccole chiese domestiche. Nella certezza che domani si sarebbero fatte di nuovo cattedrali. E la vita sarebbe tornata nella città. Così come Pietro nella nuova Roma.
A questo punto mi sveglio. Sereno.
Svegliandomi mi sono ricordato di quanto sulla mia pagina facebook avevo scritto nel giorno dell’Immacolata, vedendo le immagini di una chiesa immersa nel buio, dove si celebra a lume di candela, nella notte, nel cuore di New York, e scrissi:
Una chiesa nella notte: la catacomba metropolitana
E non ero avvilito, guardando quelle immagini crepuscolari, ma pieno di eccitazione: pensate l’entusiasmo, il calore di alcuni cristiani redivivi banditi dalle nazioni della terra che debbono incontrarsi come ladri nella notte, riunirsi a lume di candela nelle viscere della terra da clandestini, e tutti insieme così poveri, soli e perseguitati cantare la gloria di Dio e la gioia di essere cristiani, nella certezza comunque del trionfo finale. Sentendosi, quei superstiti, per la prima volta davvero fratelli in Cristo, nella “sventura” che unisce, nasce l’amicizia e un’allenza tra uomini perfettamente liberi e perfettamente soli. Le catacombe non sono una disgrazia, sono invece il luogo della grazia: dove davvero tutto si dà a Cristo, ed essendo rimasti senza più nulla in mano, Gesù ti restituisce la gioia in terra e mette da parte un tesoro per te in cielo. IO NON HO PAURA, non delle catacombe: ci si divertirebbe un casino. E ci si salverebbe gioendo e piangendo. Ho paura delle demogogie e della chiesa predicata dai sermoni di Scalfari e dai vescovi tedeschi: sazia e indifferente, borghese, burocratica, conformista, populista e senz’anima. Piena di paura e triste: perduta in questo mondo e nell’altro. Mentre contemplavo e pensavo tutto questo, la Basilica dell’Apostolo era sommersa dalle abbaglianti oscene luci del mondo alla rovescia, mentre, quella chiesa borghese e populista, gli apriva oltre che le braccia le gambe.
I tempi e le date di Gesù. Le contemporanee gravidanze “di grazia” delle consanguinee Elisabetta e Maria, madri del Precursore e del Messia. Una sorprendente, piccola ma importante, nostra scoperta annidata tra le righe della veggente Caterina Emmerick.
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di Ruggero Sangalli
Dopo la pubblicazione dell’articolo sull’Immacolata e sul Natale, nei quali avevo illustrato la ragionevolezza di date abbastanza precise riguardanti la storia di Gesù e di Maria, uno dei commenti più intriganti pervenuti al nostro Mastino cita un articolo di Vittorio Messori – insuperabile apologeta a cui debbo molte delle mie conoscenze – apparso sul Corriere della Sera nel 2003 [vedi qui].
Quinto mese e un giorno
Andrea del Sarto. Annunciazione. 1528
L’articolo riferiva che il professor Shemarjahu Talmon, dell’università ebraica di Gerusalemme, studiando il materiale rinvenuto nella biblioteca essena di Qumran, è riuscito a precisare in che ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali.
Da questo studio Vittorio Messori fa discendere la presenza di Zaccaria al tempio a settembre, collegando questa evidenza con la tradizione cristiana orientale che pone in quel mese il concepimento del Battista.
Muovendo da questo spunto può essere interessante sapere che le classi sacerdotali (primo libro delle Cronache, cap. 24) prestavano servizio per una settimana, da sabato a sabato (2 Re, 11,9). La rotazione portava casualmente a essere di turno in certi momenti dell’anno. Nell’anno in cui fu concepito Giovanni il Battista (che per altre ragioni sappiamo essere il 3 a.C.), Zaccaria, appartenente alla classe di Abia, fu di servizio in corrispondenza con “l’offerta dell’incenso”. Zaccaria non stava officiando in modo “comune”: San Luca scrive che gli “toccò in sorte” (Lc 1,9) l’offerta dell’incenso, operazione (Levitico 16, 12-13) eseguita in un giorno ben preciso. L’evangelista Luca insiste più volte sull’incenso e l’entrare nel santuario quando Zaccaria ricevette l’annuncio della maternità di Elisabetta: si trattava del 10 di tishri, giorno dell’espiazione, lo Yom kippur, in settembre, esattamente come dice la tradizione degli ortodossi!
Luca Signorelli. Le sacre famiglie: di Maria e Giuseppe ed Elisabetta e Zaccaria. Ossia di Gesù e del Battista
Abbiamo così due indizi, derivanti da scritti antichissimi, che convergono su un periodo preciso e circoscritto del calendario. Questo punto di riferimento è prezioso: teniamo presente che il “sesto mese” di Elisabetta dura trenta giorni: cioè al quinto mese e un giorno una donna incinta è al suo sesto mese. Detto altrimenti: il mese di gravidanza non è un “giorno”, ma un “insieme di giorni”: una donna incinta è nel suo “sesto mese” sia dopo 5 mesi e un giorno, sia dopo 5 mesi e 29 giorni. Elisabetta si tenne nascosta cinque mesi e nel sesto mese (per Elisabetta) Maria ricevette l’annuncio dell’Angelo. Ci sono pertanto una trentina di giorni ugualmente rispondenti al dettato del Vangelo di San Luca.
Dicembre certum est, il 25 incertum
Carlo H. Bloch; Elisabetta accoglie Maria
Tutto questo ragionamento era per spiegare che la data del Santo Natale di Nostro Signore è del tutto ragionevole nel periodo in cui la festeggiamo, ma che attribuirle la certezza del 25 dicembre muovendo dal fatto che Elisabetta concepì Giovanni a settembre dell’anno prima è azzardato. La gravidanza umana -in assenza di prematurità- dura da 38 fino anche a 42 settimane; 38 settimane corrispondono a 266 giorni: i classici 9 mesi (se da 30) corrispondono a 270 giorni. E’ del tutto teorico, anche ipotizzando un’annunciazione/concepimento al 25 marzo, ritenere “certa” la nascita di Gesù al 25 dicembre. Non è escluso, ma non è affatto “automatico”; ancor più meccanicistica sarebbe la pretesa calcolare le date, di nove mesi in nove mesi, su due gravidanze storicamente “concatenate”, come furono quelle di Elisabetta per Giovanni e Maria per Gesù. Senza per questo togliere storicità alla data del 25 dicembre, ma accettandone anche la simbolicità, che risiede nel riferirsi al 25 kislev, la festa delle luci, “a fagiolo” per la Luce del mondo!
Quando elaborai per la prima volta le mie varie ipotesi cronologiche mi stupii di questo fatto: la “comparazione” di date tra il nostro attuale calendario e altri calendari è possibile (scientifica) grazie a precisissimi “calendari perpetui” (il migliore è fourmilab/calendar converter), che oggi permettono anche a dilettanti e curiosi come me di fare le prove, ma che pochi decenni fa non erano disponibili a studiosi del calibro di un Ricciotti e tanto meno ai mistici.
La sorpresa scovata negli scritti della Emmerick
Visitazione
Mentre rimuginavo sui vari calcoli cercando di rispondere alle curiosità del Mastino ed altri lettori, contemplando il presepio e invocando i doni dello Spirito Santo (come suggeritomi dal confessore prima di Natale), mi è venuto in mente di riprendere il libro delle visioni della beata Caterina Emmerick.
Spesso non ci si pensa nemmeno… eppure l’inspiegabile ci raggiunge, ci snida e ci sfida.
Romanzate o no da Brentano, [vedi qui] le visioni della mistica tedesca furono di due secoli fa. A quei tempi non erano disponibili computer e calendari perpetui in versione elettronica.
Proviamo allora ad incrociare che cosa scrisse Brentano ascoltando la beata Emmerick con quello che c’è nella Bibbia e con le altre nozioni accumulate.
Elisabetta con Maria nel tempio, alle spalle Zaccaria. Maria canta il Magnificat alla presenza di Elisabetta e Zaccaria: alla nascita di Giovanni Battista, il santo vegliardo risponderà con il suo “Benedictus”
Zaccaria officiava al tempio nel turno della classe di Abia. Le classi erano 24 e ognuna aveva un turno settimanale, da sabato a sabato. A Zaccaria quell’anno toccò in sorte (non era scontato) l’offerta dell’incenso, che avviene il 10 tishri. Osservando i calendari perpetui quel giorno nel 3 a.C. era un 17 settembre, di giovedì. Zaccaria avrebbe terminato il suo turno il sabato e sarebbe tornato a casa, da Elisabetta, il giorno 19 settembre. Le tradizioni bizantine assegnano la data del 22 settembre al concepimento di Giovanni.
La classe di Abia sarebbe stata ancora di turno dopo 24 settimane, a partire dal 27 febbraio, sabato, corrispondente al 25 adar, dopo 168 giorni, che fanno 5 mesi e mezzo (quindi nel sesto mese per Elisabetta).
Quando Zaccaria fu nuovamente di turno al tempio, Elisabetta aveva smesso di “tenersi nascosta”!
Fu a quell’epoca che Maria ricevette l’annuncio dell’angelo.
Adesso viene il bello, ossia lo stupefacente, ma non allucinogeno: nelle visioni di Suor Caterina si dice che, pochi giorni dopo l’annunciazione, Maria convinse Giuseppe (che comunque stava già pensando di recarsi a Gerusalemme per la Pasqua) ad andare da Elisabetta, arrivandovi (lo scrive anche il vangelo) assai rapidamente. Immaginando un’andatura di 3-4 Km l’ora e 8-10 ore di cammino al giorno (la Emmerick esprime in ore di cammino l’unità di misura degli spostamenti) la strada diretta -per i monti- tra Nazaret e la Giudea può essere percorsa in meno di 4 giorni: Maria era giovanissima e Giuseppe non anziano. Le visioni di Suor Caterina attestano che la famigliola giunse a casa di Elisabetta il giorno successivo al ritorno di Zaccaria dal tempio.
In base alla ricostruzione che stiamo seguendo, Zaccaria sarebbe tornato il 6 marzo (3 nisan), quindi l’annunciazione potrebbe essere anteriore di una settimana (qualche giorno prima di partire, più il rapido viaggio), alla fine del mese di adar. Stupiamoci insieme: la Pasqua (che inizia il 15 nisan) quell’anno sarebbe caduta il 18 marzo, un giovedì, avvalorando in modo impressionante il racconto di Suor Caterina, la quale racconta persino che Giuseppe si trattenne a casa di Elisabetta per otto giorni, ripartendo la domenica sera (14 marzo), il che collima con la datazione della Pasqua ebraica di quell’anno!
Chi lo desidera può leggersi tutto nel libro “Vita della Santa Vergine Maria”. Nove mesi dopo (39 settimane dopo), nell’anno 2 a.C., guarda caso c’è proprio la festa delle luci, dal 25 kislev al 3 teveth!
Suor Caterina Emmerik fa scrivere a Brentano (cap. 3 della Vita della Vergine Maria) che Gesù visse 33 anni e diciotto settimane. E, dato che il 14 nisan del 33 d.C. fu un 1 aprile (il che è attestato persino dalla NASA e potrei naturalmente produrne la “dimostrazione”), retrocedendo del tempo indicato si arriva (udite udite!) esattamente alla data dell’ultimo giorno della festa delle luci che inizia il 25 kislev (il calendario virtuale è in internet: chiunque può verificare).
Non quindi esattamente al 25 dicembre, ma tuttavia proprio alla festa della luci che ogni anno cambia data, pur cadendo nel periodo che ci interessa. E Brentano, pur volendogli attribuire e persino imputare molta fantasia, questi calcoli NON poteva farli!
Sfido chiunque a dire che Brentano possa aver congegnato un incastro simile “a tavolino”. E’ molto più sensato non disdegnare le visioni della beata mistica tedesca, tanto più che i conti tornano benissimo.
La Emmerick
Il 25 dicembre è la logica “trasposizione” della data di riferimento per la festa delle luci (che dura otto giorni).
Nella tradizione cristiana il Natale è diventato (ben prima che servisse assorbirvi il “Sol Invictus”) una “data fissa”, anche se origina da una ricorrenza a data variabile e nell’anno della nascita del Salvatore (il 2 a.C.: Erode era ancora vivo e la data di morte al 4 a.C. è un abbaglio) poteva non essere il 25 dicembre.
La Pasqua di resurrezione invece avvenne all’alba del 16 nisan: è rimasta una data variabile, che segue la luna, ma l’anno è “sicuro”: il 33 d.C., per i vangeli, per la storia di Roma, per la NASA (il plenilunio di venerdì nell’intorno di anni “papabile” c’è solo in quell’anno) e per i mistici. Non per molti esegeti: facciamocene una ragione.
Madre Speranza di Gesù Agonizzante ha voluto ricordarci che questo Padre condivide la fatica e la nostra debolezza umana. Nell’umanizzazione del Figlio sceglie di mettersi accanto a noi. A Collevalenza ho avuto l’impressione che ancora oggi ciò che più scandalizza del Vangelo non sono le sue parole di giudizio, di rimprovero e nemmeno quanto è riportato di «bene» compiuto da Gesù. Al contrario, ciò che scandalizza è questa misericordia illimitata, interpretata e attuata da Lui in un modo opposto a quello pensato dagli uomini
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di Andrea Maniglia
Lo scrittore francese Georges Bernanos annotò che «la santità non si può costringere in una formula, o meglio, si può compendiare in tutte. Essa racchiude e supera tutte le forze, essa realizza il condensamento, costretto in un unico piano, delle più alte facoltà umane». La santità tocca concretamente tutti!
La santità non può essere mediocre
Michele Baumgarten, scrisse, poi, [profeticamente] che «vi sono epoche in cui discorsi e scritti non bastano più a rendere generalmente comprensibile la verità necessaria. In tempi simili le azioni e le sofferenze dei santi devono creare un nuovo alfabeto per svelare nuovamente il segreto della verità». Si comprende che il santo è tutto l’opposto di qualunque uomo tranquillo che scivola giorno dopo giorno nella banalità. Egli è l’attore di un dramma che propone di vivere secondo una logica del tutto diversa da quella offerta da mondo. Il santo è capace di «ridisegnare» la storia, di riscriverla partendo da Dio. Il santo non conosce la parola ”mediocrità”: l’uomo mediocre è un uomo diviso, qualcosa a Dio, qualcosa a se stesso, è un uomo che assomiglia alle onda del mare, sempre in balia del vento e della risacca. L’uomo mediocre è un uomo diviso e contraddittorio, perennemente oscillante, incapace di scelte ferme e radicali. L’uomo mediocre è diverso dal cristiano, il quale, seppur con fatica si abbandona alla generosità e alla fantasia dell’amore di Dio che è apparso con un volto umano.
La santità consiste essenzialmente – sono parole di Leon Bloy – nel mettere da parte «la negligenza, la pigrizia, la svogliatezza, il cercare sempre e soltanto i propri comodi» e, invece, «cercare di avvicinarci a Lui». Per dirla con l’Apostolo Paolo, la santità consiste nel formare Cristo in noi o più semplicemente prendere la forma di Cristo (cfr. Galati 4,19).
Il teologo milanese Don Giovanni Moioli, affermò, poi, che «la verità dell’uomo, infatti, non è nell’uomo, ma nell’umanità di Gesù Cristo». Questa non è solo una frase, ma un programma. Essa riassume, in modo preciso, quella che in fondo è l’esperienza cristiana: un rapporto continuo tra il soggettivo (io) e l’oggettivo (Cristo Gesù). L’esperienza di fede, e quindi il cammino di santità, scrive don Moioli, “è un atteggiamento complesso dell’uomo che dice a Gesù Cristo: «Tu sei la mia vita»; cioè: «Tu misuri la verità del mio modo di essere uomo»”. Così fu per Madre Speranza.
S. Giovanni Paolo e madre Speranza
Mentre batto al pc questi pensieri la memoria corre a ritroso ripensando alle diverse occasioni nelle quali ho avuto modo di visitare, a Collevalenza, quella che è l’opera della mistica spagnola; di gustarne il carisma; un carisma che anticipò, per singolare ispirazione divina, quanto fu sottolineato dal Vaticano II sulla chiamata universale alla santità: Dio cerca l’uomo e tutti chiama alla santità.
A Collevalenza il mistero dell’Amore Misericordioso di Dio per gli uomini viene ricordato in maniera che anche i sensi e l’immaginazione ne siano stimolati. San Giovanni Paolo II, nel novembre 1979, in visita alla Comunità Parrocchiale di Spinaceto in Roma ricordò che «l’uomo ha intimamente bisogno di aprirsi alla misericordia divina per sentirsi radicalmente compreso nella debolezza della sua natura ferita». Accostarsi alla figura di Madre Speranza è, per me, come avvicinarsi ad alcune figure bibliche, di cui si può cogliere solo qualche sprazzo luminosissimo in mezzo a un mistero di piccolezza e di silenzio.
L’incontro con la Misericordia
Speranza, giovane suora
Madre Speranza di Gesù, al secolo Maria Josefa Alhama Valera, nacque a Santomera, provincia di Murcia, in Spagna, il 30 settembre 1893, primogenita di nove fratelli. Il padre José Antonio era un bracciante agricolo e la madre Maria del Carmen, casalinga. Crebbe nella povertà della famiglia ed intorno ai 7 anni venne accolta nella casa del parroco di Santomera, don Manuel Allaga e fu affidata alla custodia delle sue due sorelle nubili. Qui ricevette un po’ d’istruzione senza frequentare nessuna scuola ed ebbe modo di imparare, anche, alcuni lavori domestici; rimase a casa del parroco fino a 21 anni, quando nel 1914 partì per farsi religiosa.
Dapprima entrò tra le Figlie del Calvario, Istituto di semiclausura, fondato nel 1863, qui, Maria Josefa, emise i voti il 15 agosto 1916 assumendo, così, il nome di Suor Speranza di Gesù Agonizzante. La Pia Unione delle Figlie del Calvario era composta da sole sette suore anziane, e presentava, per questo, prospettive incerte per il futuro; fu così che Suor Speranza decise di passare nell’Istituto delle Religiose di Maria Immacolata, dette Missionarie Claretiane fondate, nel 1855, da Sant’Antonio Maria Claret, anch’esse, come le prime, dedite all’educazione cristiana.
Ai tempi della fondazione della famiglia religiosa dell’Amore Misericordioso
Con il passare del tempo, diventò in lei sempre più chiara la missione che la Divina Provvidenza – per mezzo di un incontro del tutto straordinario con la Santa di Lisieux – le voleva affidare: trascorse nella Congregazione delle Missionarie Claretiane nove anni intensi, svolgendo, così, diverse mansioni quali, sacrestana, portinaia, economa, assistente delle bambine.
Fu proprio in questi anni che si accentuarono in lei fenomeni non comuni, che attiravano l’attenzione delle consorelle e di alcune personalità spagnole ed estere. Nel 1930 lasciò definitivamente le Missionarie Claretiane e per poter svolgere senza restrizioni la sua missione verso i poveri fondò, a Madrid, il collegio di “Nuestra Señora de la Esperanza” e nel Natale di quello stesso anno, nella povertà più assoluta ebbe inizio in forma privata, anche, la fondazione delle “Ancelle dell’Amore Misericordioso”, un istituto la cui missione era quella di far conoscere l’Amore Misericordioso del Padre mediante la pratica delle opere di misericordia ed in particolare tramite all’assistenza domiciliare dei molti poveri e all’accoglienza di anziani e disabili.
La solita prova dei Fondatori: calunnie e punizioni
Con il futuro padre Alfredo
Nel 1936 Madre Speranza lasciò la sua patria e si trasferì a Roma, per aprire una Casa religiosa, in affitto, in via Casilina 222, una delle zone (in quel momento) più povere della Capitale. La permanenza di Madre Speranza a Roma vide la nascita di diverse opere di carità tra cui l’organizzazione di una mensa sociale per molti poveri, sfollati e operai, la costruzione della nuova casa generalizia delle Ancelle e l’accoglienza di numerose bambine.
Gli anni tra il 1936 e il 1941, mentre in Spagna infuriava una sanguinosa Guerra Civile che ebbe numerosissimi martiri religiosi, furono per Madre Speranza quelli più duri: giunsero, infatti, calunnie – un vero classico nella storia dei fondatori religiosi – verso la sua persone e ammonimenti che invocavano la sua rimozione da Superiora Generale. E anche quando sopraggiunsero da parte del Sant’Uffizio pesanti provvedimenti a suo carico, Ella li accolse con spirito di sottomissione e ubbidienza, esortando le sue figlie a fare altrettanto.
Aveva scritto a tal proposito:
«Non è degno del Vangelo chi non è disposto a lasciarsi umiliare come il chicco di grano che, per dare vita a molti altri chicchi, si nasconde sotto terra, marcisce e muore… è nella Croce che si impara ad amare Gesù è lì che si apprende la lezione dell’amore… Senza Croce non v’è redenzione, se non passiamo per questa scuola di virtù non giungeremo alla perfezione dell’amore».
Proprio a Roma, anni dopo, il 15 agosto 1951, Madre Speranza fondò la Congregazione maschile dei Figli dell’Amore Misericordioso che ebbe in Padre Alfredo Di Penta1 il primo frutto. Il «fine principale di questa congregazione – scrive Madre Speranza – è l’unione del clero diocesano con i religiosi, i quali devono porre tutto l’impegno e la cura nell’unirsi ai sacerdoti, essendo per loro veri fratelli, aiutandoli in tutto, più con i fatti che con le parole».
Il ramo maschile, agli albori
Il 18 agosto 1951 si trasferì a Collevalenza in Umbria, dove fondò una Comunità di Ancelle e Figli dell’Amore Misericordioso. Qui avviò un laboratorio di cucito per aiutare con i proventi i più bisognosi e per accogliere gratuitamente molti bambini poveri vittime del periodo post bellico. Sfamò chi aveva perso tutto e aprì una nuova mensa, con l’aiuto della Provvidenza, dove giunse ad accogliere oltre mille persone al giorno. Proprio a Collevalenza realizzò il suo sogno: un santuario dedicato all’Amore Misericordioso che testimoniasse e facesse conoscere a tutti la misericordia del Padre che accoglie quanti sono disposti a lasciarsi amare e perdonare da Lui. Morì serenamente il giorno 8 febbraio 1983, all’età di quasi 90 anni.
Dio non è un contabile
Questi pochi riferimenti biografici, necessari per poterne comprendere almeno in parte la figura e il carisma, mettono in luce un aspetto particolare della sua vita: Madre Speranza, con la Fondazione dell’Amore Misericordioso, si è sentita chiamata ad annunciare, a vivere e a testimoniare che, come Lei scrive:
«Dio è un Padre pieno di amore e di misericordia, non è un contabile ma perdona e dimentica le offese e le miserie dei suoi figli», ed ancora, «Dio è un Padre di bontà che cerca con tutti i mezzi di confortare, aiutare e rendere felici i propri figli; li cerca e li insegue con amore instancabile come se Lui non potesse essere felice senza di loro; l’uomo il più perverso, il più miserabile ed infine il più perduto è amato con tenerezza da Gesù che è per lui un Padre ed una tenera Madre».
Davanti alle nostre incapacità, ai nostri peccati, ai tradimenti del Vangelo, alle nostre inutili chiacchiere religiose, Dio ci domanda di buttare in Lui il nostro niente, e probabilmente (anche) il nostro peccato. Non si tratta, qui, di chiudere gli occhi davanti al nostro male e al nostro limite, quanto di cercare, invece, di intravedere quanto di buono potrà svilupparsi in noi se decidiamo di far spazio a Dio; se decidiamo, anche solo per un po’ di lasciar fare a Lui.
In questa nostra cultura «della retorica», piena di aleatori “buoni sentimenti” e in cui si discute continuamente dei massimi sistemi mentre la gente muore, in cui si fanno dichiarazioni universali mentre la mentalità diffusa accetta, di fatto, tutte le contraddizioni di una economia disumana, di una politica idolatrica, tutte le logiche di un benessere famelico e lo scandalo di una povertà che affama masse enormi di uomini, la misericordia deve essere la chiave di lettura della nostra storia e anche della nostra fede.
La misericordia è il nucleo intimo e profondo del Vangelo. Sulla Croce, Vangelo e mondo cozzano tra loro, in uno scontro che diventa definitivo e senza esclusione di colpi. In questo costante conflitto ogni cuore diventa un campo di battaglia. Vale la pena, allora, “ammalarsi” di passione, combattere appassionandoci. E del resto è stata la passione di Cristo a cambiare, e salvare, il mondo.
Madre Speranza ricorda ad ognuno di noi che una vera esperienza di fede non chiede al Vangelo che cosa può conservare della propria vita e dei propri interessi senza comprometterli; una vera esperienza di fede è capace di compromette tutto, fino a considerare tutto quel che non è di Cristo e del suo vangelo ”spazzatura” (cfr. Fil 3,8); una vera esperienza di fede accetta di ”perdere tutto”, vive la grammatica dell’amore, non del calcolo, ma della gratuità e della disponibilità totale al Vangelo e a Cristo.
Il Santuario di Collevalenza
Annota nel suo diario:
«Egli abita dentro di noi e cerca con tenerezza il nostro amore, quasi non potesse vivere senza di noi…». È un Dio «mendigo de amor» – mendicante di amore. Le risposte alla nostra colpa, limite, peccato non sono le scuse e l’infantile tentativo di giustificarci, ma è il perdono. Anche se «tutti hanno peccato e son privi della gloria di Dio» (cfr Rm 3,23) il bisogno più profondo che abbiamo resta quello del perdono di Dio. Del sapersi amati.
Quest’amore ha spinto Madre Speranza ad abbracciare la sua missione verso gli ultimi, una delle sue note più caratteristiche, per la quale ancora oggi è ricordata da tanti, era la ricchezza affettiva del suo cuore, espressione di un amore materno, premuroso e intenso. Ed è proprio qui che si concretizza la specifica missione di «far conoscere a tutti gli uomini di tutto il mondo l’Amore e la Misericordia del Signore, nei confronti dei poveri che si trovano nel bisogno o nel peccato».
Del vangelo scandalizza la misericordia
A Collevalenza si comprende, almeno per me è stato così, che la misericordia non è solo un sentimento da riscoprire; un sentimento fino ad oggi trascurato, possiamo dire quasi archiviato, troppe volte strumentalizzato e quasi svuotato di significato e di contenuti. A Collevalenza si gusta una misericordia che si manifesta in atti di soccorso, in aiuto concreto; nel fermarsi al vedere una persona in difficoltà. Proprio come fa Dio nei confronti del peccatore. Egli, infatti, dice Madre Speranza «non è un giudice severo ma un padre buono e una tenera madre, che i Suoi figli li segue e li cerca con un amore instancabile, come se non potesse essere felice senza di loro».
Nell’esperienza della misericordia ci viene sempre incontro un Dio che si rallegra del ritrovamento, che non ci lascia in preda alla solitudine e al rifiuto. Un Padre che non si arrende sdegnato davanti al nostro peccato. Questo Dio che ha conosciuto e che ci presenta Madre Speranza è un Padre – “el màs bueno de los padres” – che va alla ricerca degli uomini e chiede ad ognuno di noi “que le llamemos Padre“.
Forse è proprio per questo che a Collevalenza (come spesso capita in molti santuari nazionali e non) si fa una forte esperienza di carità che in pochi attimi demolisce e ricostruisce nuova l’idea di vita cristiana che abbiamo. Lì è indescrivibile la presenza di questo Padre buono disposto a tutto affinché nessuno si perda (cfr Gv 17,11). Lì arrivi pieno del mondo e, dopo l’incontro con il Misericordioso vai via col Cielo che si è stabilito dentro di te. Tutta la nostra falsità, la voglia di attirare l’attenzione, la nostra finta santità a Collevalenza è «ridotta ai minimi termini».
Madre Speranza ha voluto ricordarci che questo Padre condivide la fatica e la nostra debolezza umana. Nell’umanizzazione del Figlio sceglie di mettersi accanto a noi. A Collevalenza ho avuto l’impressione, che ancora oggi ciò che più scandalizza del Vangelo non sono le sue parole di giudizio, di rimprovero e nemmeno quanto è riportato di «bene» compiuto da Gesù. Al contrario, ciò che scandalizza è questa misericordia illimitata, interpretata e attuata da Lui in un modo opposto a quello pensato dagli uomini.
La questione dell’acqua che redime e guarisce
Le piscine del Santuario
Il messaggio dell’Amore Misericordioso è un messaggio scandaloso, che non è capito da quanti si sentono giusti, in pace con Dio ma che è compreso e atteso da chi si sente nel peccato, bisognoso del suo perdono. Ha scritto giustamente Albert Camus nel suo libro La caduta: «Nella storia dell’umanità c’è stato un momento in cui si è parlato di perdono e di misericordia, ma è durato poco tempo, più o meno due o tre anni, e la storia è finita male».
Il messaggio della misericordia è eterno: c’è ancora urgente necessità di ribadirlo, soprattutto oggi, per imparare a «non disperare mai della misericordia di Dio» (Regola di Benedetto 4,74). Soprattutto per quei cristiani assetati di autenticità, che, avendo già iniziato un cammino spirituale, sono desiderosi di progredire nell’amore e cercano la via più incoraggiante e più sicura. L’impiego dell’acqua nella Sacra Scrittura è collegato alla sua valenza rituale e purificativa. Secondo le leggi ebraiche di purificazione, ogni persona che era contaminata doveva lavare il suo corpo con l’acqua corrente (Lv 14,5-6; Nm 19,9-22), così come era per i riti di purificazione che venivano svolti mediante aspersioni su persone e oggetti (Lv 14,7.51; Nm 8,7; 19,18-19). In questa linea rituale si colloca il simbolismo della purificazione dal peccato mediante il segno dell’acqua (Sal 51,9), segno della remissione delle colpe di tutto il popolo mediante un’aspersione escatologica (Ez 36,25), simbolo, poi, del perdono finale di Dio (Is 1,16; 4,4; Ger 33,8) e soprattutto, infine, prospettiva battesimale nel quadro neotestamentario.
Anche a Collevalenza l’acqua ha una funzione essenziale: Madre Speranza, nonostante l’indifferenza e la derisione di molti, era certa del potere miracoloso di quell’acqua, scaturita dal nulla; scaturita probabilmente solo dalla fiducia in Dio. Lei aveva assicurato che per mezzo di quell’acqua, Dio opererà guarigioni spirituali e corporali, anche incurabili. Confermando, così, che Collevalenza diventerà come una seconda Lourdes.
L’acqua delle piscine del Santuario dell’Amore Misericordioso ha sanato e continua a sanare molte ferite e molte infermità. E anche quando la volontà di Dio dispone diversamente per i pellegrini che attendono un miracolo fisico, questi comunque tornano alle loro case riconciliati, con la pace interiore, unita a quella forza necessaria per accettare la volontà del Signore e alla consapevolezza di una frequentazione dei Sacramenti. L’acqua del Santuario è la meta ultima di un percorso: il pellegrino che giunge a Collevalenza è invitato, prima, a chiedere il perdono dei propri peccati; è invitato, così, ad assumere un atteggiamento di contrizione e di pentimento delle proprie colpe. Insomma è invitato ad inginocchiarsi innanzi all’Amore del Padre, a riconoscersi amato e limitato e a scegliere di lasciar dirigere tutta la propria vita da Lui.
Una suora curva ed anziana, rammentando le parole di Madre Speranza, proprio lì a Collevalenza, testimone delle varie trivellazioni alla ricerca del pozzo e poi nel 1960 dell’inaugurazione dello stesso, mi sussurrò che il Signore vuole risanarci anche da malattie incurabili per farci capire che la sua misericordia può guarirci da ogni forma di infermità anche spirituale. Ed è proprio vero, l’Amore di Dio ci risana da quelle paralisi che ci bloccano e ci costringono a stare «accovati nella melma puzzante del nostro inferno» (Giovanni Papini). E dall’acqua che si riemerge nuovi, così come si esce rinati dal confessionile: risanati e guariti. Il grande Crocefisso in legno policromo opera dell’artista Cullot Valera che accoglie quanti giungono a Collevalenza è il segno di quest’abbraccio eterno di Dio per noi. La misericordia Crocefissa di Dio ci espone, ci spoglia di tutto, ci fa nudi, autentici e semplici. Ogni giorno siamo invitati a compiere, come fu per Madre Speranza, un atto di libertà: uscire dall’ansia di possedere, dall’egoismo e dalla illusione di poter dire «basto a me stesso».
Amato clero
Chi ha avuto modo di leggere le pagine del diario di Madre Speranza ha potuto constatare il suo ardente desiderio di potersi offrire come vittima di espiazione per i peccati dei sacerdoti del mondo intero. Voleva riparare alle offese commesse specialmente dai sacerdoti.
Ricordo dell’ordinazione sacerdotale di P. Alfredo, proprietà dell’articolista
Il 16 febbraio 1940 annotò:
«Aiutami, Gesù, perché in queste angustie, sofferenze e dolori, io soffra solo per Te, per la Tua gloria e per i sacerdoti del mondo intero che hanno avuto la disgrazia di offenderti…”,
e ancora nel Giovedì Santo di quello stesso anno, 21 marzo 1940, rinnovò, con parole cariche di commozione, il suo voto:
«Oggi, giorno del Giovedì Santo, rinnovo, Gesù mio, l’offerta fatta nel 1927 al mio Dio come vittima per i poveri sacerdoti che si allontanano da Lui e lo offendono gravemente. Ti chiedo Gesù mio, di non lasciarmi un istante senza dolori e tribolazioni, e che la mia vita sia un continuo martirio, lento ma doloroso, in riparazione per queste povere anime e per ottenere la grazia del pentimento».
Un altro passo del diario ci aiuta a comprendere questo suo desiderio di riparazione e questo suo esser sovente pronta ad espiare i peccati di quello che Gesù colloquiando con lei, in alcune esperienze mistiche, aveva definito “amato clero”. Quest’altro passo che segue è datato 2 Aprile 1942. Un altro Giovedì Santo. Madre Speranza scrive:
«Oggi, giorno del Giovedì Santo, ti prego Gesù mio, di non dimenticarti dei sacerdoti del mondo intero per i quali desidero vivere come vittima: illuminali, Gesù mio, con la tua luce chiara affinché comprendano e sperimentino il vuoto e la nullità delle cose umane, e attirali a Te, mostrandoti ad essi come Padre amoroso e fonte di ogni bene. Dà, Gesù mio, alla volontà di ognuno di essi la forza e la costanza di cui hanno bisogno per non desiderare né cercare niente fuori di Te».
L’amore della Madre si unisce all’amore di Gesù per i suoi sacerdoti, per i quali Madre Speranza ha pregato ed ha sofferto non poco. Le attenzioni e le premure materne che Madre Speranza aveva nei confronti dei sacerdoti erano abbastanza evidenti. Il suo desiderio, per questo, fu, ed è ancora oggi così, che in tutte le Case della Congregazione i sacerdoti potessero sentirsi come a casa propria. Per questo motivo lo stesso servizio nei loro confronti è impostato sulla gratuità. Ancora oggi alcune Ancelle dell’Amore Misericordioso ricordano che nonostante li ospitasse gratuitamente, se li vedeva vestiti dimessamente, li provvedeva di quanto avevano bisogno.
Cingolo liturgico confezionato dalla beata Madre Speranza
Diceva: questo è il secolo di più santi, ma è pure il secolo in cui il Clero e le anime consacrate offendono di più il Signore perché è il secolo che dà più occasione di peccato. La sua più grande sofferenza fu vedere cadere in disgrazia uno dei ministri di Dio. Mi piace pensare, a tal proposito, chissà quante volte si sarà chiesta: Chi pensa ai preti? Dove trovano conforto nello scoraggiamento e nella solitudine? A queste intime domande Madre Speranza ha cercato di rispondere prendendosi cura della loro vita spirituale, specie di quelli più giovani, per mezzo dell’animazione fraterna di raduni, ritiri e corsi di esercizi spirituali.
Ha provveduto, poi, all’accoglienza e all’assistenza di quelli più anziani e malati «costruendo luoghi» non solo materiali in cui anche i sacerdoti potessero vivere l’esperienza della divina misericordia. Ancora oggi i Figli dell’Amore Misericordioso si occupano di accompagnare situazioni problematiche all’interno del clero testimoniando così che c’è speranza, quella trascendente che recupera l’uomo nella sua integralità. L’atteggiamento di Madre Speranza è una provocazione, ancora oggi, per molti Vescovi che si dicono padri.
Donna casta
Quanti hanno avuto la grazia di conoscerede visu o ex auditu Madre Speranza sono certamente rimasti meravigliati dalla sua purezza. La Madre ha vissuto, infatti, ed insegnato a vivere e ad abbracciare il voto di castità non solo come obbligo dato da un particolare stato di vita, non solo come testimonianza profetica di una sequela peculiare del Maestro, ma anche in chiave di donazione.
Ama la castità chi sa amare, ama la castità chi sa donarsi. Il linguaggio della castità oggi (purtroppo) suona male, anche all’interno degli stessi ambienti ecclesiastici. Forse era per questo che Madre Speranza amava regalare ai suoi figli sacerdoti un cingolo che lei stessa confezionava con quelle stesse mani doloranti a motivo delle stigmate2, affinché, prima di salire presso l’altare di Dio, stringendolo ai fianchi, ogni alter Christus potesse ricordare la sua appartenenza a Lui. Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis – (Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità).
Grazie a questa scelta radicale, il cui valore oggi occorre riscoprire, Madre Speranza è arrivata ad amare con libertà, con la quale si apriva all’ascolto e nel servizio disinteressato degli altri, nella purezza del cuore, lasciando trasparire, così, che Dio che era il suo unico interesse. La castità trova da sempre la sua sorgente nell’Eucarestia. In passato si era soliti invocare la SS.ma Eucarestia come il Sacramento che germina i vergini. In essa misteriosamente e misticamente si crea una stretta relazione tra il corpo di Gesù e il nostro corpo. Le ore passate dalla Madre innanzi al Tabernacolo sono infinite:
Quanto è amabile, mio Gesù, il tuo tabernacolo! Beati coloro che abitano nella tua casa, vicino al tabernacolo dove dimora il mio Dio, non in segni e figure, ma in tutta la realtà della sua presenza, anche se coperto dal velo delle specie per non abbagliare i nostri deboli occhi. Le apparenze lo sottraggono al nostro sguardo, ma, anche se oscuramente, possiamo dire abbracciandoci a Lui quando lo riceviamo nella santa Comunione: Ti tengo stretto e non ti lascerò; ti ho nelle mie mani, sulle mie labbra e in tutto il mio essere perché chi mangia il tuo Corpo deve diventare un solo spirito con Te.
La meditazione assidua della Parola di Dio, la recita dell’Ufficio divino, la devozione alla Vergine, la Comunione Eucaristica e l’adorazione contribuirono alla perseveranza non solo della sua castità consacrata, ma anche di tutti i suoi santi propositi. La comunione eucaristica che ci assimila alla Vittima immolata, a sua volta è «il fonte dell’amore, della santità», perché non c’è nulla che «più unisca con Dio» (cit. San Paolo della Croce).
Bilocazioni, stimmate e attacchi del maligno
Don Francesco Asti, sacerdote napoletano, Consultore presso la Congregazione per le Cause dei Santi, ha riportato nel suo libro “Teologia della vita mistica. Fondamenti, dinamiche, mezzi” (Edizioni LEV) che la vita mistica è un movimento di comunione con Dio, detto appunto non solo mistico, ma della vita mistica, in quanto cammino di fede vissuto nella ferialità della vita quale sviluppo battesimale dei doni di Dio (cfr pp. 21-22).
In questa prospettiva si comprende anche che «il cammino mistico […] non riguarda solo il monaco o la monaca che si ritirano nel deserto, ma ogni fedele, in quanto l’incontro trasformante con Dio avviene quando l’anima è unita a Lui» (cfr pp. 29-30). Le numerose esperienze mistiche di Madre Speranza sono conosciute – lo erano già quando la beata era in vita. Desiderosa di contemplare la passione di Gesù e soprattutto bramosa di imitarne i sentimenti fu sempre particolarmente devota al Calvario. Basta ricordare che Madre Speranza ebbe le stimmate, le quali durante il periodo della Passione (settimana santa) divenivano ben visibili a tutti. Sono note le grandissime penitenze, sacrifici, privazioni e mortificazioni alle quali si sottoponeva.
Come molti altri santi nella storia (Padre Pio, Natuzza Evolo e molti altri) ebbe il dono particolare della bilocazione. I biografi raccontano sovente l’episodio di bilocazione avvenuto col Venerabile Pio XII. Mentre il pontefice stava nel suo ufficio papale, in un istante, si ritrovò di fronte la monaca. Sbalordito le chiese come fosse riuscita ad entrare, e la Madre rispose che l’aveva mandata il Signore per parlargli di alcuni fatti importantissimi.
Sono conosciutissimi, inoltre, gli episodi in cui la Provvidenza non ha smesso di sorprendere questa semplice suora: dispense miracolosamente stracolme di ogni genere alimentare oppure banconote e sacchetti con monete «caduti miracolosamente dal cielo» utilizzati per la costruzione del Santuario. Quando per la prima volta ebbi modo di sentir parlare di Madre Speranza, fu per un episodio collegato col Servo di Dio P. Candido Amantini, sacerdote esorcista, di cui si è aperta la causa di beatificazione e di cui poi successivamente negli anni, sono divenuto biografo e studioso. Ebbene, quando si ha a che fare con l’Amantini c’è di mezzo sempre il demonio. E proprio lui, il “tignoso”, era solito, di notte, picchiare Madre Speranza, con estrema violenza, sino ad arrivare a romperle le ossa e costringerla ad esser portata d’urgenza in ospedale la mattina successiva. Spesso si sentiva udir provenire dalla sua camera orribili grida, grotteschi versi d’animali furiosi, rumori di catene ed una forte puzza di zolfo. Nel museo a Collevalenza è possibile osservare i fogli ove la Madre scriveva le sue esperienze spirituali e che prendevano spontaneamente fuoco come, spesso, avveniva, anche, con le coperte del suo letto. Ma la sua fede, ricorda il Card. Amato, nell’omelia per la beatificazione le permise di attraversare «le oscure gallerie del male, dell’incomprensione e dell’umiliazione, uscendo purificata e rafforzata nei suoi propositi».
Messaggere di luce in un secolo di tenebra
Vittorio Messori sulla rivista “Jesus” (febbraio 2001) ricordava che sulla devozione dei santi sembra «sia sceso una sorta di silenzio imbarazzante, se non di rifiuto, quasi si trattasse di superstizione o, almeno, di un aspetto di anacronistica religiosità popolare». È ormai da diversi anni, personalmente, che scrivo sui santi e di santità per diversi motivi. La santità ed i santi non piacciano a tutte quelle lobby di teologi che discorrono sul celibato dei preti, sula verginità della Vergine Maria, sulle coppie di fatto e sui matrimoni gay. Questi teologi – per così dire – «avanzati» considerano i santi ignoranti e «passati» di moda. Troppo vecchi per la Chiesa (quale Chiesa, poi?!). I santi, invece, fanno parte proprio di quei «semplici» che, per il Vangelo, capiscono ciò che è nascosto ai dotti e ai sapienti. Troppo spesso, in questa nostra società, corriamo il rischio di chiudere la speranza cristiana, in un ambito intramondano sempre più sprangato alla trascendenza; abbiamo relegato questa virtù ad una felicità di natura edonistica o immaginaria e artificiale prodotta dalle sostanze stupefacenti, che ricerchiamo nel fascino illusorio delle filosofie orientali e nelle spiritualità esoteriche delle diverse correnti New Age.
Negli occhi di questa donna, invece, si comprende bene che vale la pena riscoprire la nostra comune vocazione alla santità. A tal proposito il Cardinal Amato, concludendo l’omelia per la beatificazione della Madre augurava ai presenti che la vita fosse «una corsa verso la santità, perché il mondo ha sempre più bisogno di persone sante, che sappiano vincere il male col bene».
Servo di Dio vuol dire essere Crocefisso con Cristo: Madre Speranza, questa donna sempre sorridente, è salita su quella Croce e stringendo in un abbraccio il mondo intero è divenuta canale mediante cui Gesù diffonde il grande messaggio della misericordia nel mondo. È certamente possibile, a tal proposito, poter affermare che Madre Speranza e la mistica polacca Suor Faustina Kowalska hanno, in un secolo buio, avvicinato e proclamato al mondo l’Amore viscerale di Dio per ogni uomo. C’è affinità: entrambe furono scelte per essere messaggere di luce in un secolo di tenebra. La Kowalska annotò nel suo diario le parole di Gesù: «Nell’Antico Testamento mandai al Mio popolo i profeti con i fulmini. Oggi mando te a tutta l’umanità con la Mia misericordia. Non voglio punire l’umanità sofferente, ma desidero guarirla e stringerla al Mio Cuore misericordioso» (Q. V,155).
In conclusione: qualche anno prima di morire Madre Speranza aveva chiesto che i suoi figli «di comune accordo, mi vogliano concedere una grazia da me tanto desiderata e precisamente: se il buon Gesù mi concede di poter consumare la mia vita qui, vicino al Suo Santuario, io vorrei che Voi lasciaste i resti di questa povera creatura il più vicino possibile a questo Santuario perché desidero che si consumino vicino ad esso come fortunatamente si sta consumando tutta la mia vita a servizio del medesimo».
Morte di Speranza. 8 febbraio 1983 a 90 anni
Questa povera creatura, la cui vita fu vissuta, cuore a cuore con Cristo, ancora oggi, ha da dirci ed insegnarci qualcosa. Probabilmente ha da ricordarci un messaggio antico, il più delle volte offuscato dalla logica di questo mondo in decomposizione. Con la testimonianza della sua vita, ci ha chiamati a rispondere alla domanda: Chi sei, Gesù per me? La risposta non può più, essere descrittiva («Tu sei»), ma esperienziale («Tu per me sei»). Ed è proprio questa domanda che non finisce mai di interpellarci e alla quale la vicenda terrena e spirituale di questa figlia umile della cattolica Spagna può essere una risposta. Saremo liberi, pienamente liberi, quando decideremo di fare quelle cose che nessuno ci costringe di fare, andare contro corrente – fidarci di Dio per esempio, oppure assumere la logica della Croce o sottomettersi amorevolmente alla forza rivoluzionaria del Vangelo. Così come ha fatto lei Esperanza de Jesús Agonizante.
Vi devo dire qualcosa, pur mantenendomi sul vago, come mi consiglia il webmaster, sicché “se a un bambino prometti una caramella e poi dài un muffin, quello è contento; se gli prometti una torta ma poi gli dài un muffin s’incazza”. Quindi io, prudentemente, vi prometto un muffin soltanto, così non sbaglio, e nessuno s’ingrugna.
Veniamo al dunque.
Entro pochi giorni si inizieranno i lavori di rifacimento di PapalePapale, un rifacimento radicale, anche se resta solo una prima fase della “riforma”, lunga e complessa.
I tempi sono complicati – inutile stare a fare elenchi di accadimenti scellerati – e dunque ho pensato necessario che PapalePapale diventi una voce strutturata, più efficiente e sistematica, nell’informazione religiosa: per meglio intervenire, e con maggiore autorevolezza, nel dibattito ecclesiale. Insomma, intendo avviare PapalePapale verso una neppure troppo lenta “professionalizzazione”.
Intendo dunque farne un piccolo centro di attività apologetica, evangelica, culturale sfruttando qualsiasi strumento di comunicazione disponibile; appoggiandomi anche a quella non indifferente sequela di amici e nemici che per amore o per odio mi seguono: cioè voi.
Le intenzioni sono tante, ovviamente le possibilità (immediate) restano limitate.
Per dovere di cronaca, “vagamente” come vuole il webmaster, accenno ad alcune.
LOOK
Rifacimento del look del sito, unendo all’eleganza essenziale delle forme, la praticità e la semplicità d’accesso e di funzioni.
FUNZIONI
Saranno aggiornate e potenziate tutte le funzioni di condivisione e accesso al sito da tutti gli strumenti online e le nuove tecnologie.
CUCCIA
Potenziamento e massimo risalto della fin qui randagia Cuccia del Mastino, allorché mi sono reso conto che in quella mia “quasi privata” agenda di appunti, il numero di utenti a ogni nuovo post supera persino quello degli articoli sul sito principale.
NEWS
Si vaglierà la possibilità di coprire le più importanti news quotidiane.
RUBRICHE
Ho deciso di revocare le attuali rubriche presenti sul sito e crearne di nuove. Una new entry tra i “rubricisti” sarà certamente l’Eccellentissimo Monsignor Eleuterio Favella: usufruendo della perizia di suor Giacomina nell’usare gli antiquati aggeggi di controspionaggio – ricevuti in omaggio dall’allora ministro di polizia Cossiga, ospite per un certo periodo di convalescenza nell’Istituto cav. Benito Mussolini all’Africano, retto dalle Maestre Pie Elefanti –, la quale registra e trascrive tutte le mie conversazioni con Monsignore.
BLOG ALTRUI SU PP
Altre ipotesi di rubriche personali sto vagliandole, pur prevedendo di non assegnarle tutte subito: sono intanto gradite eventuali candidature di aspiranti rubricisti su PP, fate le vostre proposte e saranno seriamente considerate. Oppure proponete di trasferire il vostro blog su PP che certamente è ormai una piattaforma consolidata con un pubblico ampio, che un privato blog cattolico difficilmente raggiungerebbe.
EDITORIA
Sarà studiata e messa all’opera una prima formula per la diffusione e l’acquisto di inedito materiale bibliografico online, di interesse per il cattolico, in attesa di futuri e più classici sviluppi editoriali.
VIDEO
Sarà probabilmente meglio organizzata e resa sistematica la sezione dei nostri video.
PAGINA FB
Farò in modo che vi sia un collegamento tra la home del sito e i post della mia pagina facebook.
SOSTENITORI
Per la prima volta, stante tutti questi progetti che necessitano di cure tempo e spese, inviteremo i lettori più affezionati che possono permetterselo a sostenere con qualche contributo economico il sito.
PUBBLICITA’
Per la stessa ragione di cui sopra, certamente saremo disponibili a vendere spazi pubblicitari o promozionali sul sito. E potete contattarci per saperne di più.
COLLABORATORI
Quanto ai collaboratori, certamente c’è un gruppo di amici coi quali spesso ci consultiamo e che funge da redazione, fermo restando che la linea del sito la decido io e io soltanto, pur ascoltando i diversi pareri sulle questioni delicate. Tuttavia, stante la mia mente aperta e la liberalità, intendo allargare, come del resto sto già facendo, la lista dei liberi collaboratori di PP: mi piace che PP diventi un punto di riferimento, un microfono in mano a gente, laici e sacerdoti, che abbiano qualcosa da raccontare o spiegare, sapendolo fare (per iscritto). Quindi, se siete consapevoli di saper scrivere, non fatevi remora a propormi dei vostri articoli: saranno seriamente vagliati.
CONTENUTI
Quanto ai contenuti, vorrò puntare maggiormente sull’apologetica, l’esegesi evangelica e la storia e cultura cattolica, piuttosto che sulle polemiche clericali battute da tutti i giornali: qualcuno deve pur restare a rendere ragione della fede, dal momento che ormai tutti, supreme gerarchie cattoliche comprese, parlando d’altro, o no? Ebbene, io resto per questo. E poi non disdegnerò di fare un po’ di bella scrittura, insomma novellistica, a scopi, diciamo così, edificanti: del resto, è nota a molti ormai la mia predilezione letteraria, che sto affinando e mettendo all’opera (ho un lungo racconto in fase di ultimazione, che a suo tempo non mancheremo di pubblicizzare a fondo).
Con questo, mi pare di aver detto il grosso. Se avete proposte o richieste tecniche ed editoriali per il sito, di modo che vi risulti più comodo e gradito, fatemelo sapere, o nei commentari o in privato.
Chiaramente, a partire dai prossimi giorni e per una ventina di giorni, le funzioni e le pubblicazioni di PapalePapale saranno limitate dai lavori in corso e ad un certo punto sospese. Un abbraccio
I padri della Chiesa sapevano che l’antropologia biblica non si limita alla realtà dell’uomo somatico e storico. La nostra spiritualità va ben oltre la mera sensualità, i sentimenti e la ragione (che poi fu detta “dea”). Distinguevano accuratamente anima e spirito, in aggiunta al corpo. Si guardavano bene dal disprezzare la corporeità, ma la collocavano dove deve stare, nella creaturalità umana al cospetto di Dio. E così il teologo era innanzitutto un mistico, cioè chi aveva fatto “esperienza di Dio” e non un intellettuale dubbioso, che discetta di Dio, perfino non credendo alla Sua esistenza. Il teologo è colui che riflette sul mistero che ha incontrato, o è chi parla di ciò che va cercando, procedendo a tentoni?
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di Ruggero Sangalli
Fatti mistici non mitici
L’arrivo dei Magi a Betlemme, descritto dal vangelo di San Matteo, merita una difesa da ogni possibile mitizzazione.
La difesa riguarda il fatto che siamo in presenza della Rivelazione di Dio in Cristo.
Quello che accadde non è perciò da ricondurre agli schemi degli intellettuali post-moderni, ma alla pedagogia usata da Dio con l’uomo.
E’ solo la mistica a garantire che il discepolo entri in una relazione spirituale con il Creatore tale da elevarci dal peso della natura carnale (malata e decaduta dopo il peccato originale).
Viceversa il solo discorso “logico” o di valore e di ideale, tipico di una catechesi filosofica, corre il rischio di farci scadere in una sintesi concettuale e ideologica.
La densità “mistica” dell’evento storico che contiene anche innumerevoli simbologie, è tutt’altro dalla demitizzazione che consegue ad un approccio intellettualistico.
Gesù fu maestro di un modo di proporre la Verità in forma mistica e mai concettuale. Non venne a parlarci di metafisica, ma mise gli uomini a contatto con il mistero di Dio, fornendo gli elementi per entrare nel mondo della vita dello spirito che sta oltre la sola ragione, il pensiero, le idee e tutto l’armamentario dei patiti della psiche e di chi -in modo improvvido- confonde la spiritualità con questo apparato psichico dell’uomo.
Il ricorso al simbolo è necessario al mistico che porta al Trascendente, cioè dalla terra al Cielo.
Tutto ciò è anche simbolo, ma deriva da un’esperienza naturale, connessa alla Rivelazione di Dio all’uomo; in particolare la cosiddetta “teologia dell’Incarnazione”, capace di rendere il cristianesimo qualcosa di unico nella storia.
Dunque a Betlemme giunsero degli “astrofili”, mossi dall’aver visto un fenomeno celeste che seppero collegare a svariate altre conoscenze, conducendoli non in un luogo “a caso”, ma nell’unico dove sarebbero potuti arrivare.
Giunsero degli uomini in ricerca, ma poi ripartirono avendo trovato.
Non vissero più nel dubbio programmatico, ma della fede che avevano accolto e adorato.
Antropologia biblica e “anatomia” biblica
John Wycliffe Lettura della sua traduzione della Bibbia
E’ forzata ogni rilettura in chiave intellettuale o di “attualizzazione antropologica” tendente a fare dei Magi dell’Oriente dei migranti, degli antesignani del turismo religioso, degli scienziati razionalisti o uno stuolo di variamente credenti convenuti ad un rito interreligioso. L’uomo che verrebbe “istruito” da questa prospettiva antropologica e antropocentrica sarebbe esclusivamente somatico e storico, perciò secolarizzato.
I padri della Chiesa sapevano che l’antropologia biblica non si limita alla realtà dell’uomo somatico e storico. La nostra spiritualità va ben oltre la mera sensualità, i sentimenti e la ragione (che poi fu detta “dea”). Distinguevano accuratamente anima e spirito, in aggiunta al corpo.
Si guardavano bene dal disprezzare la corporeità, ma la collocavano dove deve stare, nella creaturalità umana al cospetto di Dio.
E così il teologo era innanzitutto un mistico, cioè chi aveva fatto “esperienza di Dio” e non un intellettuale dubbioso, che discetta di Dio, perfino non credendo alla Sua esistenza. Il teologo è colui che riflette sul mistero che ha incontrato, o è chi parla di ciò che va cercando, procedendo a tentoni?
E’ la Maria che “mette insieme tutte le cose nei pensieri del cuore” oppure chi ritenga Maria inadeguata a descrivere la condizione della donna, dubitando della veridicità dei vangeli?
Mi scrisse un amico: “l’uomo è immagine” di Dio in quanto il Verbo incarnato, il Figlio, pensato fin dal principio per farsi uomo, ne è il modello, anche etico.
Ma non si può ridurre con troppa sicumera tale “immagine” (esteriorità) ad un’identità interiore, tanto meno la creatura a ritenersi pari al Creatore: se l’incarnazione può assicurare l’immagine per nascita, la somiglianza è data solo dalla presenza dello Spirito di Dio, attraverso una rinascita dall’alto.
Astri. Nel centro una figura ricorda Maria con sul grembo il Bambinello
E comunque essere somiglianti non attiene all’identità, ma al pensarla allo stesso modo, al fare come farebbe Lui… Il dubitarne o il “fare ciò che voglio”, anche con l’intento di attualizzare l’esperienza della Rivelazione, non è lo stesso…”
L’antropologia, spesso presentata umile e misericordiosa, è tragicamente intrisa di moralismo perché pensa solo alla dimensione orizzontale, alla psicologia dei rapporti, utilizzando Dio come schema per descrivere le dinamiche relazionali. Al contrario l’antropologia biblica muove dalla Rivelazione, dal dato mistico, in un percorso che l’uomo “potenzialmente immagine” deve compiere per raggiungere la “somiglianza” con Cristo, vero uomo e vero Dio.
Questa rilettura “moderna” della mistica fa dell’uomo somatico e storico il verbo incarnato, riducendola all’uomo di carne e delle proprie idee, singole o associate, ad esprimere maggioranze più o meno qualificate, addirittura “lo spirito” (dicendolo di Dio).
Non una cometa ma un insieme di astri
I Magi arrivano a Betlemme seguendo un “astron”. La beata Emmerick scrive che non era una cometa, ma che si trattò di un insieme di astri, particolarmente appariscente e carico di significati per chi ne avesse le chiavi di lettura. In questo, una volta di più, demitizza Giotto e la cometa di Halley, ma rilancia gli studi di chi era già arrivato alla conclusione che all’epoca il cielo stellato propose straordinarie congiunzioni tra Giove e Venere.
Il Signore e Creatore del Cielo e della terra prende carne lanciando segnali alle creature capaci di Dio.
Nelle visioni della beata Emmerick è detto che i Magi giunsero prima della presentazione di Gesù al tempio, cioè entro 40 giorni dalla nascita, il che è umanamente fattibile.
Erode, da loro accuratamente informato di ciò che scrutarono guardando verso l’alto, brancolava nel buio… Lui non vedeva nulla, ma sentiva traballare la “poltrona” cui tanto stava abbarbicato.
I sacerdoti disponevano della profezia di Michea.
Non più spiritualità ma psiche
Avvertiti in sogno dagli angeli, per i Magi l’epilogo della vicenda fu di tornare per un altra via, disobbedendo al potere del re. Per il re l’epilogo fu di far trucidare tutti i bambini della zona, fino ai due anni di età. L’uomo per opporsi a Dio-vita può usare solo la morte, che è il prodotto del peccato, l’artiglio di Satana, sconfitta da Cristo crocifisso e risorto.
Ancora oggi c’è chi scrive (su un giornale di “satira”) che il colpevole ancora a piede libero di svariati assassinii sarebbe Dio. E ci sono dei credenti nel Dio cristiano che non esitano a dirsi aperti anche ad altre “sapienze”, quasi che la propria non bastasse o non fosse la Verità.
E’ il prodotto dei “lumini”, extra ed intraecclesiali: brillano soprattutto al cimitero.
Non c’è più una spiritualità, solo psiche, che in certi casi viene elevata a pretese di spiritualità secolarizzanti e secolarizzate.
Niente mistica, solo concetti “religiosi”, antropocentrici e immanenti.
Gesù ci parla anche attraverso le stelle. Noi con le stelle ci facciamo Star Wars…
Io la vedo così: quando veniamo battezzati, noi usciamo dalla nostra condizione di miseria temporale ed entriamo con Cristo e in Cristo, per mezzo di Cristo che si presenta all’altare, nella pienezza del tempo del Giordano. Dunque, Gesù in persona mi porta in braccio nel Giordano, mi porta nella sua stessa carne e, quando i cieli si aprono e proclamano di Lui “Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”, ci sono anche io. Prediletto in Lui, con Lui. Sono io che per Grazia divina entro nell’Eterno, perché Cristo non irrompe nella Storia per lasciarci in balia della storia.
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di Donna Melpicos
Gesù non fa nulla di simbolico
E’ uno dei misteri, il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano, che rischia di essere banalizzato se non viene capito fino in fondo perché Dio, fatto uomo, spontaneamente scelse di scendere in pochi metri cubi dell’ acqua di uno dei tanti fiumi che per mezzo di Lui era stato creato. Già… il Creatore di tutte le realtà visibili e invisibili, dei fiumi, dei mari e dell’uomo, si lasciò battezzare da Giovanni, il profeta, “voce di uno che grida nel deserto”, che però udì la voce di Dio che proclamò il Figlio amato sopra i cieli del Giordano, mentre lo Spirito Santo, inviato sotto la specie di una colomba, si posava sul suo capo.
Mannaggia, sarà perché non sono teologo, ma io ci capisco poco. Capisco, però, che Gesù non fece nessun atto simbolico in tutta la sua vita: non guarì simbolicamente, non sfamò simbolicamente, anzi! Ne sfamò 5000 e ne rimasero ben 12 ceste. Non resuscitò Lazzaro per finta e nutrì davvero gli apostoli del suo corpo e del suo sangue, prima di subire il martirio, in cui non patì e morì sulla Croce separando da sé la carne dalla sua stessa divinità, con un miracolo di anestesia. Poteva farlo? Si: poteva inscenare una perfetta Passione senza sentire alcun dolore, senza patimenti, risparmiandosi, di nascosto, tutto quanto e rifilarci una bella storiella romanzata, col finalino a Resurrezione.
C’è un corpo di troppo? O c’è troppo poca fede e forse edulcorata dal sentimentalismo natalizio nel Verbo che si è fatto carne? Carne umana decaduta, ribellata, sottoposta alla fame, alla sete, alle tentazioni, alle angosce intime e alla morte. Gesù Cristo, dunque, è nato per entrare nella nostra veste di sacco, in un momento del tempo che il Vangelo chiama “la pienezza del tempo”. Ovvero, nella storia si genera uno squarcio meta-temporale e spaziale in cui l’ Eterno si mostra e accetta di vivere nelle nostre dimore mentali, fisiche e caduche. Questa realtà è veramente importante, perché cambia la prospettiva di tutto ciò che noi credenti definiamo “tempo”, dopo la venuta e la resurrezione di Cristo.
Ma torniamo al Battesimo. Il corpo, ossia l’umanità di Cristo, scende nell’acqua e si lascia purificare da un gesto del suo profeta Giovanni, quel bambino di cui si dice: “andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”
…I profeti, già!, queste strane figure, quasi sempre monaci nelle lande desolate, asceti che vivono per essere “voce di Uno che grida nel deserto”. Giovanni era la Sua voce nel deserto, oppure i profeti e lo Spirito Santo che parla per mezzo di loro sono un altro simbolo, leggende di strani monaci che preferirono il deserto agli uomini, le locuste al pane fresco e le intemperie ad un tetto caldo e accogliente? Insomma, fanatici ma accattivanti cantastorie di Dio? Un Dio che ad un certo punto, come primo atto pubblico, decide di farsi battezzare dal suo più grande profeta. Ne aveva bisogno? Lui no, ma il suo corpo sì e noi pure.
Neppure il suo battesimo fu simbolico
Gesù, allora, entra in quell’acqua e nell’eternità di quell’atto che si compie sul suo corpo, purifica tutta la carne umana, tutta in una volta. In quel gesto, c’è il Battesimo di chiunque dopo di Lui, perché assunto in Lui, nella sua umanità.
Io la vedo così: quando veniamo battezzati, noi usciamo dalla nostra condizione di miseria temporale ed entriamo con Cristo e in Cristo, per mezzo di Cristo che si presenta all’altare, nella pienezza del tempo del Giordano. Dunque, Gesù in persona mi porta in braccio nel Giordano, mi porta nella sua stessa carne e, quando i cieli si aprono e proclamano di Lui “Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”, ci sono anche io. Prediletto in Lui, con Lui. Sono io che per Grazia divina entro nell’Eterno, perché Cristo non irrompe nella Storia per lasciarci in balia della storia.
E di Figlio ce ne sta uno solo! Ma spesso si dimentica che lo proclamiamo come “Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli”. Lui è l’unico Figlio e resta tale, mentre noi lo diventiamo per Grazia di “partecipazione”: adozione mi piace poco, perché sa di estraneità di sangue, mentre è proprio per il suo vero sangue che siamo resi simili a Lui; dunque era necessario che si lasciasse battezzare, come primo atto Incarnato dell’inizio della nostra salvezza.
Non sentiamoci tutti “figli di Dio” a vanvera!
Uno è il Figlio, e se non mi lascio “partecipare” nel suo corpo in quel Giordano, se io non mastico la Sua carne e non bevo del suo sangue, il mio destino sarà per forza di restare un effimero sacco in balia della morte e di un Dio in cui credo, ma a “modo mio”. Andremo a “modo nostro”, allegramente e serenamente verso la perdizione.
Credere in un Dio anonimo, universale, che ama tutti quanti e che quindi è quasi obbligato ad aspettarci, indistintamente e vagamente (come spirito puro? Come anima buona? Come angioletti? Come che cosa?) su nuvole bianche a sorseggiare una tazzina di caffè, perché tanto è Bontà e Misericordia infinita a prescindere… contraddice di fatto tutte le ipotesi di una religione che possa fare a meno di Cristo, perché è una religione che non salva nessuno dalla morte definitiva e che non spiega, soprattutto, il senso di questa nostra esistenza e del nostro dover morire. Solo il Cristo, il Figlio del Padre, mediante la sua incarnazione e resurrezione risolve il dramma reale dell’uomo, il dramma originale, e riconsegna al Padre ciò che era andato perduto.
“..allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. (Gen. 2,7)
Dio non si è arreso alla nostra scelta di morire. Ma per vivere non c’è altra scelta che Gesù Cristo. Un cielo senza Cristo è per forza un cielo senza alcun uomo. E i primi testimoni di tale verità furono i famosi Magi, che tutto erano, tranne che israeliti in attesa del loro Messia privato.
Atti non parole
Tutte queste cose sono scritte nella Bibbia e nei Vangeli. Gli atti di Cristo e sottolineo con forza la parola ATTI, stanno nella Rivelazione, dunque la Parola è memoria perpetua dell’atto che redime tutte le generazioni che attingeranno alla sorgente che disseta una volta per tutte. La Bibbia è una serie di atti, perché la Rivelazione non è Parola nel deserto, ormai, ma nella carne, di Cristo e poi nella mia. Se dicessi che “leggere” la Bibbia è il modo peggiore di trattarla mi dareste della matta. Immergersi nella Bibbia, nuotare, ingoiare, mangiare e nutrirsi della Bibbia come fosse l’ultimo pasto del condannato a morte: così io “maltratto” la Parola, che non è Parola e basta è atto!
E’ vita! E’ tormento per chiunque. Che bellezza quel passo di Isaia in cui dice: “Voi, che rammentate le promesse al Signore, non prendetevi mai riposo e neppure a Lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme, finché non l’abbia resa il vanto della terra”.
Questo fa della Bibbia non un racconto sacro, ma la Potenza della Misericordia, unica e sola, che si trasmette per mezzo del Verbo e muta la sorte del mio destino. E il tempo del cristiano è in realtà un paradosso, un effetto ottico, ma non fisico. Il sacco deve morire, perché Cristo morì, mettendo fine per sempre a quella misera veste di cui ci siamo ricoperti con l’infamia della disobbedienza, e che il Padre non disdegnò per il suo Unigenito. Che umiliazione! Pensare a questo, ammetto, crea vertigini spaventose. Non si può capire l’ Amore di Dio, non del tutto, non in questo mondo, per lo meno.
Ecco cosa deve fare la Chiesa, di ieri, di oggi, di sempre. Proclamare gli atti di Cristo e adorarli, tutti, perché sono gli unici che servono alla vera salvezza dell’uomo. Le chiacchierate di cortesia vanno pure bene, per sorseggiare the e pasticcini, e parlare del tempo o del clima, ma se si omette di dire la Verità unica e sola, che riapre la porta del cielo a noi poveri cialtroni che siamo, tutti quanti su questa terra, è probabile che ci sarà un paradiso pieno di persone a cui verrà dato un Battesimo di Grazia misericordiosa e misteriosa, post-mortem, a causa di una Verità non data e detta in nome di un Dio che sta bene su tutto, e magari un inferno pieno di sacerdoti, vescovi e cardinali, nonché papi, che sconteranno il castigo eterno per non aver radunato il gregge. Anzi, lo hanno lasciato pascolare per i fatti suoi, in nome del “quieto vivere universale”.
All’alba del terzo millennio, c’è di nuovo bisogno di dire Chi è Cristo. E come è morto e Risorto nella carne
E per favore, basta con queste Croci simboliche, questo sì è davvero diabolico, fatte di remi di migranti, o di falci e martello. Anche la Croce è vera ed è la cosa più sacra che abbiamo dopo l’Eucaristia. E di codesti pseudo artisti del simbolismo umano, il mondo, francamente ne può fare a meno molto volentieri.
Forse non potremo dare da mangiare a tutti i poveri del pianeta, o curare tutti gli ammalati, o dare un tetto stabile ad ogni fratello, ma di certo possiamo dargli il battesimo e una promessa di vita eternamente perfetta, molto più come lo saprebbe fare il più caritatevole e povero dei santi. Francesco, Santità…ricordi al mondo Chi è il Figlio di Dio e sfamerà il mondo intero.
Questo non capiscono di noi cattolici: non facciamo battaglie “integraliste” contro questo e quello, non lottiamo per la nostra sola sopravvivenza. Non più. La nostra ormai è una battaglia contro la morte. Lottiamo contro la fine del mondo.
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di Antonio Margheriti Mastino
La scissione dei saperi?
Più volte mi è capitato di ripetere che la frattura, parecchio artificiale e in ogni caso artificiosa, tra l’era dei Lumi e quel che l’aveva preceduta – stando alla leggenda nera volteriana, i “secoli bui” – ma diciamo pure tra prima e dopo Galileo, questa frattura era la “scissione dei saperi”, che si affrancavano dalla teologia per vivere di vita autonoma.
Oggi non lo ripeterei più, perché oggi so che la teologia è il vertice supremo di tutti i saperi, e ne è la summa.
Non lo ripeterei perché oggi so che davvero la Chiesa fu “magistra”, non solo nelle sacre scienze, ma anche in tutte quelle profane: le grandi scoperte scientifiche, i capolavori della bellezza, i segreti della meccanica e delle tecniche, tutto lo scibile visibile e invisibile, tutti i campi d’indagine sull’umano ebbero per protagonisti figli consacrati della Cattolica, religiosi.
Non lo ripeterei perché oggi so che la Chiesa non pose dei limiti alle scienze umane usando la teologia, bensì le aprì a tutte le possibilità, anche all’impossibile. Se qualcosa impose, è il principio secondo cui nella vita di questa terra e oltre, nulla è assurdo ma tutto quanto è mistero, che spesso si lascia svelare.
E’ la scienza “finalmente autonoma” dei Lumi che respinge l’oltre, il mistero, si nega all’impossibile anche come sola possibilità di ricerca, speculazione e sperimentazione, per rinchiudersi infine nella gabbia del razionalismo e dello scientismo, circoscrivendo con miriadi di paletti il campo di indagine consentita all’uomo, e stabilendo che “è reale solo quanto è visibile”, scambiando tutto questo con l’“essere razionali”. Ma questo è semplicemente materialismo. Oggi sappiamo bene quanto fosse fallace questo dogma laicista al quale forse neppure gli stessi “razionalisti” credettero sino in fondo, se non in malafede. E sappiamo anche quanto la Chiesa fu laica nel suo sapere, e quanto fu allergica al bigottismo; bigottismo che fu poi la bandiera di tutti quelli che sbandierarono le “conquiste” seguite alla Rivoluzione Francese.
Non esiste un’epoca cristiana e un’epoca a-cristiana
Ma era un’altra la cosa che volevo dire.
Si dà per scontato che prima dei Lumi il mondo e ogni sua secreta cosa, tutto il panorama dello scibile, la sapienza dei secoli, fossero eminentemente cristiani. E lo erano, in effetti.
Dopo i Lumi, però, quelle stesse cose erano diventate d’improvviso “laiche”, ossia del tutto autonome, immuni ed estranee al cristianesimo, e dunque il cristianesimo era scomparso dall’orizzonte dei saperi; e poi da tutto il resto del mondo, rintanato semmai in qualche chiesa. La Conoscenza, dunque, non aveva più padri e madri, era nata orfana, sbucata da una sorta di buco nero. La Ragione, come una divinità pagana, nasceva da se stessa, generata dal nulla e dal caos ad un certo momento della storia, nel Settecento precisamente. Il resto era buio e morte, un incubo, un riverbero onirico opalescente. Ora era venuta la luce e il sole era alto sul raggiunto mezzogiorno, grazie a quattro pupazzoni imparruccati e incipriati che blateravano a Parigi con orgoglio e pregiudizio di cose amene ed esotiche con rara superficialità e pompa vacua, raramente imbroccandone una.
In realtà ho poi scoperto una cosa, studiando: che non esiste un’era cristiana e un’era a-cristiana, un tempo dove il cristianesimo era in tutto e un altro tempo dove era scomparso da tutto.
Esiste un solo tempo, dove la Chiesa è sempre, ininterrottamente Protagonista. Come riconosciuta grande “Maestra” o come “Nemico” pubblico n°1.
Fu un’epoca anti-cristiana non scristianizzata
Sì: esiste un’epoca, prima dei Lumi, totalmente cristiana; e, dopo i Lumi, un’epoca totalmente anti-cristiana. E se la prima aveva la missione di formulare ogni cosa in termini cristiani, tutto risalendo a Dio pantocratore; la seconda aveva la missione di tutto riformulare in termini anticristiani, in contrasto unicamente alla visione cristiana delle cose, scristianizzando tutto quanto lo stesso cristianesimo aveva, in scienza e sapienza, apportato. Ma appunto è dal cristianesimo e dalle sue categorie che parte, non dal nulla e dal caos: sul cristianesimo innalza le sue croci rovesciate.
Infatti forse mai s’è parlato – pro o contro ma se ne è in ogni caso parlato allo sfinimento – del Dio di Cristo, quanto dopo l’Età dei Lumi, dove la Ragione, si diceva, aveva sostituito la “superstizione”.
Vedete dunque che la Chiesa resta, nel bene o nel male, la vera Protagonista della storia, che sia storia cristiana o anticristiana: come Signora della storia o come Fantasma della storia, come “Magistra” o come “Meretrix”, comunque la protagonista. Il fine di tutte le ideologie volta per volta dominanti, infatti, quelle passate presenti e future, è e sarà sempre rimuovere, in principio o in fine, l’ostacolo principale al loro trionfo: il cristianesimo, quello romano e non solo. Ma non si può. Per questo i loro sono sempre stati falsi trionfi, illusioni atroci; desideri rovesciati nell’opposto dei propositi di magnifiche sorti e progressive immaginate senza Dio e contro Dio, da una misteriosa Mano Invisibile che riduce in cenere la tentazione primordiale, quella che fu anche di Lucifero, ossia “essere come Dio”, “meglio di Dio”, divinizzarsi detronizzandolo.
Cristianesimo, a-cristianesimo, anti-cristianesimo, post-cristianesimo. E Cristo.
Sintetizzerei così: non esiste un’era cristiana e un’era a-cristiana, esiste una storia cristiana e una storia che si rivolta contro il cristianesimo, ma dove il cristianesimo, lungi dal lasciare indifferenti, è sempre al centro a fomentare gli animi, come esempio o come bersaglio. E siccome non si è riusciti a cancellare il cristianesimo facendo seguire all’epoca cristiana un’epocaa-cristiana, di indifferenza e oblio cioè, si è ripiegato sull’epoca anticristiana, ottenendo l’opposto e fallendo di nuovo. Ai giorni nostri, si prova un altro espediente, per la verità stavolta interno anche alle gerarchie ecclesiali: un’epoca post-cristiana. Cambiano i nomi e le formule, ma il fine è sempre il medesimo: sradicare e finanche cancellare il ricordo del cristianesimo in Occidente. “Facendo nuove tutte le cose”. Puzza di zolfo e di già sentito, di putrefazione questo ennesimo espediente.
Perché non arrivi la fine del mondo
Questa battaglia per cancellare Cristo dalla storia è, dunque, dopo 300 anni, più viva e attiva che mai, e oggi sta di nuovo raggiungendo l’acme.
Ma si può scristianizzare il mondo quanto ci pare, ma Cristo, scandalo per giudei e stoltezza per i pagani, è incancellabile, e resta incuneato nell’inquietudine quotidiana dei paesi anche più secolarizzati. Perché senza Cristo non c’è rimedio alla noia, all’invecchiamento inarrestabile, al tumulto nel cuore, al male di vivere, e alla strisciante e sibilante smania di cupio dissolvi: il desiderio di morte e annullamento. Sicché, quando il mistero è obnubilato dall’assurdo, si perde la voglia di vivere e l’unica prospettiva razionale resta solo il suicidio. Non a caso – fate mente locale – i vecchi e stanchi paesi europei, specie quelli nordici, ormai parlano di una sola cosa, come ultima disperata speranza: poter morire, spegnere la vita.
Fateci caso: parlano e legiferano solo di aborto, eutanasia, suicidio assistito, contraccezione, rifiuto della maternità se non come esperimento di laboratorio che non coinvolga la natura e l’umano. Fino al colpo scuro finale: la danza macabra intorno al feticcio delle “unioni” omosessuali, per l’appunto un simbolo di morte ed estinzione, essendo per antonomasia l’omosessualità l’emblema della sterilità, evocatrice della fine della perpetuazione della vita e dello spegnersi del mondo. Cupio dissolvi: desiderio di morte e annullamento.
Questo non capiscono di noi cattolici: non facciamo battaglie “integraliste” contro questo e quello, non lottiamo per la nostra sola sopravvivenza. La nostra è una battaglia contro la morte. Lottiamo contro la fine del mondo.
Le malattie psichiatriche ci sono sempre state. Quelle psicologiche invece sono sorte in epoca contemporanea. Non a caso la psicologia è nata 200 anni fa. Nasce dal cambiamento che la società ha cominciato a vivere con le varie rivoluzioni industriali e il cambio dei costumi: da uno stato di natura, la società ha cominciato a costruirsi su basi sempre più differenti… E nemmeno l’omosessualità c’è sempre stata: è un problema di oggi… Oggi che a noi sembrano poche le differenze tra due genitori e due omosessuali come educatori, ma non sappiamo a cosa porteranno nel futuro. Sulla base del passato, chi non è d’accordo a dire che un figlio nato da genitori separati non ha avuto problemi psicologici molto più forti e radicati che uno nato nella famiglia mulino bianco? Quindi con l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali si sta aprendo un vaso di Pandora che non sappiamo dove ci porterà, ma prevedibilmente porterà tanti problemi nuovi.
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di Don Marco Scandelli
Mi ero ripromesso di non lasciarmi immischiare pubblicamente nell’agone scatenato intorno al DDL Cirinnà. Non perché non avessi una posizione chiara (certo per nulla omologabile a quelle sbraitate sui social-media), ma perché sono convinto che quando si arriva a dover scendere in piazza, significa che si è persa la vera battaglia che è quella quotidiana dell’educazione. La piazza, dal mio punto di vista, è simile ad una pezza cucita su un vestito strappato. Terrà! Perché ci auguriamo che tenga. Ma fino a quando? Inoltre, la piazza ha un grave difetto d’origine: rischia di essere strumentalizzata ideologicamente.
Ed io, per esperienza, rifuggo dalle ideologie, soprattutto quelle mascherate da “cattolicesimo”. L’ideologia fa male. Tanto male. Può sembrare che aiuti alla “causa”, ma in realtà le instilla un veleno mortifero dal quale poi è difficile liberarsene. L’ideologia batte cassa, chiede il conto. Ed è sempre salato.
Speravo così di cavarmela con un post su Facebook: «La logica del mondo, oggi… se scrivi del Family Day: “Sei omofobo”. Se non scrivi: “Sei piegato alla omodittatura”. Se cerchi di alzare il livello del discorso proponendo un testo che faccia riflettere tutti invece che dividere (perché la ragione non è che sta sempre e solo da una parte): “Sei poco convinto”. Morale della favola: è proprio vero che noi cristiani viviamo nel mondo ma non siamo di questo mondo».
E poi arriviamo a questa mattina. Mi chiama un amico, uno studente di medicina di una grande università italiana, che evidentemente si era azzardato ad entrare nell’agone! Cadendo.
Con un filo di rabbia mista a disillusione, mi racconta che da quando, una settimana fa, un po’ goffamente ha detto ai suoi compagni di corso che sarebbe andato a Roma per prendere parte alla manifestazione del Family Day di domani, ogni volta che apre bocca per dire qualsiasi cosa, parte un coretto di “amici più stretti” (così li ha definiti lui) che lo prendono in giro dicendo che è un “cattolico bigotto”. Ma è anche successo che altri, a mensa, evitassero di sedersi al suo tavolo, sebbene fosse l’unico ad avere posti liberi.
Assediato dai suoi compagni, è andato in crisi e mi ha chiesto di aiutarlo a comprendere tre questioni. Lo ha fatto inviandomi un messaggio, al quale ho risposto sempre via WhatsApp. Mi limito a riportare l’uno e l’altro.
Le malattie psichiatriche sono sempre esistite. I problemi psicologici no
Come un pacco
Il mio amico mi ha scritto questo messaggio:
«Don, io non cambio la mia posizione. Però l’odio di cui mi sento vittima mi porta a cercare d’andare al nocciolo delle mie convinzioni. Non è bello sentirsi evitati per le proprie posizioni. È molto triste! Per questo desidero che siano il più vere possibili. Se riuscissi a far sparire ogni dubbio che ho, a quel punto non mi interesserebbe più il fatto che mi odino o no. E i miei dubbi sono fondamentalmente questi:
Ci sono prove sufficienti per dire che i bambini cresciuti da coppie omosessuali siano diversi?
E poi, che la famiglia sia uomo donna, chi l’ha deciso?
Infine, l’omosessualità c’è sempre stata? È una variante della normalità o un modo d’essere parallelo?»
Io ho risposto così, e per comodità cito senza uso di virgolette:
Permettimi di fare un discorso più in generale, per poi cercare di arrivare più concretamente a quello che mi chiedi.
Le malattie psichiatriche ci sono sempre state. I cosiddetti “matti” esistono da sempre e abbiamo anche molti esempi storici: pensa a Caligola o Nerone. Le malattie psicologiche invece sono “sorte” in epoca contemporanea. Non a caso la psicologia nel suo senso patologico è nata di fatto solo 200 anni fa con Wilhelm Wundt, ma soprattutto con Sigmund Freud.
Ideologia della confusione: il gender
I disturbi psicologici nascono dal cambiamento che la società ha cominciato a vivere con le varie rivoluzioni (in primis quella industriale) e con il cambiamento dei costumi. Da uno stato di natura che andava avanti da millenni più o meno stabilmente (fino al XIX secolo un uomo conosceva nel corso di una intera vita quello cui il nostro cervello può essere sottoposto oggi in cinque minuti), la società ha cominciato a costruirsi su basi sempre più differenti modificando dunque il modo naturale attraverso il quale il nostro cervello normalmente cataloga e vive le situazioni quotidiane.
Per capire meglio questo possono essere di aiuti gli studi di alcuni scienziati come Anne Campbell o Noam Chomsky, uno tra i 10 nomi più citati di tutto il 1900.
Tutto questo, nel tempo, ha portato alla nascita dei primi disturbi di personalità. Cosa che si è acuita particolarmente con i grandi cambiamenti del XX secolo ed in particolare e senza dubbio con la nascita e l’affermazione del femminismo e la teoria del gender.
Pensa al fatto che certe cose sono “nate“ e si sono sviluppate anzitutto nei paesi anglosassoni: oggi si dice che sono stati all’avanguardia su certi temi, ma in realtà hanno solo avuto modo di constatare prima cose che da noi si sono manifestate solo con decenni di ritardo, a causa del fatto che noi abbiamo “scombinato” più tardi il naturale e quotidiano vivere dell’uomo.
Infatti, più si va avanti a cambiare l’assetto naturale della vita umana e più nasceranno scompensi e problematiche psicologiche sempre nuove e sempre più radicate.
Se ci limitiamo a parlare o a cercare casi e situazioni, oggi potrebbe apparire che non ci sia differenza tra l’essere cresciuti da genitori eterosessuali o da una coppia omosessuale. Spesso si porta il caso di genitori naturali che si dimostrano come le persone meno adatte a crescere il proprio figlio (pensiamo alla violenza domestica e alla risposta dello Stato attraverso gli affidi). Ma le conseguenze psicologiche che un ulteriore cambiamento dell’assetto naturale potrebbe portare sulle generazioni future non sono affatto prevedibili.
Qui non si tratta, come in tanti stanno ripetendo, di diritti delle coppie omosessuali. In America esistono, per fare un solo esempio, associazioni di figli cresciuti da coppie omosessuali che si stanno battendo perché questo sia vietato nel futuro, una si chiama The Quartet of Truth. Tutti loro, naturalmente, vanno dall’analista, ma la ragione non è la solita presunta discriminazione della società nei confronti di chi li ha cresciuti. Le ragioni sono ben altre.
Ideologia della confusione e della demolizione: gender
Del resto, poi, tutti gli esempi sono confutabili, ma sulla base del passato potrei dire questo: io sono cresciuto negli anni ’80 e ’90 in cui certe cose erano più evidenti (perché nuove e meno radicate). Sfido chiunque a dirmi che un figlio che ha vissuto la separazione dei genitori non abbia avuto (ed ha) problemi psicologici molto più forti e radicati che uno nato in una famiglia “mulino bianco”! Non è un giudizio sulle persone, non sto dicendo che sono cattivi. Sto solo constatando la fatica che queste persone hanno vissuto: fatica quanto più grande tanto più piccole d’età esse erano all’epoca.
La tecnologia, per fare un altro esempio, è una grande risorsa, ma scompensa il modus operandi normale del cervello umano sottoponendolo a sforzi quotidiani molto duri con la proposizione di nozioni e dati che senza di essa il cervello non dovrebbe affrontare. Possiamo dire che Internet è una grande risorsa ma è allo stesso tempo un grande problema? Internet non è riconosciuto dal nostro cervello come “naturale”. Poi il cervello è in grado di adattarsi a tutto, ma con grandi sforzi e non senza a volte anche gravissime conseguenze.
Per farla breve, io penso che con l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali si stia aprendo un vaso di Pandora che non sappiamo dove ci porterà, ma prevedibilmente porterà con sé tanti problemi nuovi.
Mi si potrà dire: «Rischiamo!». Io risponderò: «Rischia qualcosa di tuo! Perché dobbiamo fare esperimenti, almeno nella realizzazione non molto dissimili da quelli portati avanti dal Regime Nazista, su bambini innocenti che non possono scegliere?».
Chi ha deciso che la famiglia è uomo-donna?
In merito poi alla famiglia uomo-donna, non è che è stato deciso da qualcuno che dovesse essere così. È un dato di fatto incontrastato almeno dalla nascita dell’uomo e della donna. Da sempre e in tutte le società due uomini non sono mai stati considerati famiglia. Solo nella nostra società, con tutti i problemi a livello psicologico che sono nati, sente il bisogno di tale esigenza.
Anche qui. Se si tratta solo di cavilli giuridici possiamo anche chiamare una coppia omosessuale “famiglia”. Che ci vuole? Ma la famiglia da sempre ha avuto un ruolo fondamentale nella società (qualsiasi): la procreazione dei figli per la salvaguardia futura della stessa società.
Ecco perché lo stato ha tra i suoi scopi quello di difendere la famiglia e dovrebbe farlo anche con sgravi fiscali oltreché con le leggi: perché in tal modo sta difendendo se stesso.
Invece, oggi, capita che gli Stati non difendano più se stessi (si vuole creare qualcosa di nuovo) e perciò non sono più interessati a difendere la famiglia e dunque la procreazione. Hai presente quei partiti, movimenti e organizzazioni anche internazionali che hanno tra i propri slogan: «Nel mondo siamo troppi?». Ma qui mi fermo.
L’omosessualità non è sempre esistita
E torno così al punto da cui sono partito, dicendoti che in realtà l’omosessualità per come la conosciamo noi non è sempre esistita. Saffo, uno degli emblemi storici dei movimenti LGBT, non era affatto lesbica: insegnava alle fanciulle di Grecia come si faceva ad essere mogli. Faceva cioè capire alle ragazze come dovevano comportarsi con i loro futuri mariti, anche sessualmente. Certo, un lavoro del genere non poteva farlo un uomo! Saffo non era lesbica e questo lo dice qualsiasi libro di letteratura greca.
Prima del XIX secolo si ha notizia solo degli atti di sodomia, considerati come una aberrazione sessuale. Ma un conto sono le azioni che venivano compiute, un altro è dire che ci fosse infatuazione o vero e proprio amore. Infatti, gli atti di sodomia (condannati anche socialmente) erano veri e propri atti di sottomissione. La persona che subiva la sodomia non provava piacere, ma ne era costretta in quanto oggetto di piacere sessuale di matrice sadica. La sodomia era una punizione, la dimostrazione di essere trattati come un “buco” da chi aveva più potere. È ben lungi dall’essere paragonabile ad una storia d’amore.
Fino all’epoca moderna l’omosessualità non esisteva, lo si evince molto bene in un prezioso studio di Roberto Marchesini. Al limite si parlava, appunto, di atti di sodomia.
Del resto, trovami un omosessuale conclamato prima di questo periodo! Potrai rispondermi che non di tutti gli uomini abbiamo la storia; ma se anche ce ne fosse qualcuno, la sostanza non cambierebbe e quanto espresso prima non andrebbe assolutamente in crisi. Pensiamo ancora all’antichità Greca, per esempio: pur esistendo la pederastia in forme anche codificate, essa era concepita solo come strumento pedagogico che andava dai 12 ai 19 anni, poiché allo spuntare della prima barba terminava lo “svezzamento”. Eppure in un clima del genere nessuno si è mai sognato o ha preteso di formare una famiglia omosessuale. Gli adulti erano sempre accompagnati dalle mogli ed avevano dei figli, destino che di lì a poco sarebbe toccato anche agli stessi adolescenti.
Così appare però in tutte le altre società antiche, quali i popoli pre-ispanici nelle Americhe, i cinesi, i romani, ecc., come dimostra uno studio di Jean-Claude Féray letto in modo non ideologico.
Ah. Scusa. E per togliere ogni dubbio, a parte le citazioni che ti ho detto, vorrei farti notare che queste cose non le ha mai dette né un Papa né un Cardinale, ma le diceva Sigmund Freud e le hanno sostenute i suoi discepoli.
Poi, ognuno può credere al romanzo o al film che vuole.
Ai giorni nostri diversi vescovi e politici cattolici avallano più o meno apertamente la rivoluzione antropologica in corso e leggi irricevibili per il credente, immaginando di modernizzare la Chiesa, portarla “al passo coi tempi”, mettendo così a tacere l’accusa di oscurantismo. Convinti che sarà un bene. Ne erano convinti anche i vescovi “riformisti” del 1790, agli albori della Rivoluzione Francese, quando consentirono l’approvazione della Costituzione civile del clero: certi che fosse un bene. E invece fu la catastrofe.
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di Danilo Rossi
Vuoi per metodi d’insegnamento vuoi per comodità mentale, spesso siamo stati abituati a credere che le rivoluzioni avvengano così, quasi all’improvviso.
Tutto va bene, poi per qualche motivo arriva il malcontento e quindi arriva la rivoluzione, con ciò che comporta. Molto semplice, molto logico. Ma non è così.
Le rivoluzioni, gli stravolgimenti arrivano da lontano: prima sono pensieri, poi divengono sussurri, parole ed infine urla. Non a caso un nobile un giorno disse a Luigi XVI: “Sotto Luigi XIV si stava zitti. Sotto Luigi XV si sussurrava. Ma sotto di voi si urla!”. Certo, non tutto è preordinato e lineare: si inizia con un’idea, a cui cammin facendo se ne aggiungono altre; si muta strategia e metodo per meglio farle accettare: ma tutto per arrivare ad un fine che, bene o male, è già disegnato.
Se aveste detto ad un vescovo, nella Francia del 1789: “Gli Stati generali vorrebbero espropriare i beni della Chiesa, sopprimere il 30% delle diocesi, far eleggere i vescovi dai fedeli e farli giurare sulla Costituzione, scristianizzare la nazione e massacrare quelli che s’oppongono”: tranne casi patologici avreste viso un’espressione d’orrore sul volto dell’interlocutore, quando non una fuga a gambe levate.
Le riforme vanno distillate lentamente, per gradi, in modo da farle accettare all’interlocutore. Si parte da un’idea assolutamente condivisibile, da cui poi far derivare – come logiche conseguenze – ulteriori e più estremi cambiamenti: una volta iniziato il percorso, è sempre più difficile tirarsi indietro. Finché, alla fine di una serie di piccoli passi, la strada percorsa è molta.
E’ il problema della diga: per quanto imponente e ben costruita, anche una piccola falla le è fatale. Pian piano s’allarga fino a far crollare l’intero edificio.
Per il bene della chiesa
mons. Boisgelin de Cucè. Doppio gioco o sprovveduto
Questo accadde in generale anche nella Rivoluzione francese, e più in particolare nelle singole “rivoluzioni” che – sommate – diedero il risultato generale di quella.
Guardiamo alla Costituzione civile del clero: le basi di questo stravolgimento vengono da lontano. Vengono certamente dall’ateismo e dall’anticlericalismo di una parte minoritaria dell’elite culturale e sociale, ma la sua vittoria non sarebbe stata possibile senza l’acquiescenza e la morbidezza di una maggioranza che all’origine si poteva definire più riformista che rivoluzionaria: sicuramente la borghesia agiata fatta di avvocati, alti funzionari dello Stato, proto-industriali e grandi commercianti, che ad un crescente potere economico desideravano unire il riconoscimento come forza politica. Ma anche i primi due “ordini”, clero e nobiltà.
Come valutare questa acquiescenza? Sarebbe molto lungo e complesso trattarne le cause: ma non si può negare che un suo ruolo lo ebbe il desiderio di conciliarsi con lo “spirito del mondo”, che allora era lo spirito dei lumi, tradotto nella ricerca del consenso, dell’applauso, dell’essere giudicati come “moderni” e conformi allo spirito del tempo.
Non a caso, François Furet così commenta il dibattito dell’Assemblea circa la Costituzione civile del clero: “Un discussione di politici, giuristi e proceduristi tra un cattolicesimo debole, asservito e quasi laicizzato, ed una Rivoluzione arroccata al proprio nuovissimo potere, che ricalcava il modello assolutista”.
Pio VI Braschi, con la famosa tiara poi fatto rubare (con tutto il resto) da Napoleone e fondere in gioelli per la sua corte.
Ad un diabolico Talleyrand (ricordiamolo: vescovo egli stesso), che si fece portavoce di tali cambiamenti, faceva da contraltare un disarmante Jean Boisgelin de Cucè arcivescovo di Aix-en-Provence, che all’Assemblea esclamava frasi come queste: “Una riforma del clero non può che consistere nel ritorno alle regole della Chiesa primitiva […] non saremo certo noi vescovi ad ostacolare questo ritorno a tali regole, che solo il tempo ha potuto indebolire con una lunga serie di abusi […]”. Era il 1790, e pare il 2016. Misteri della storia, che sempre si ripropone nelle dinamiche: perché cambieranno anche i tempi e la mentalità, ma non l’uomo.
Sia chiaro, Boisgelin non era un rivoluzionario, e nemmeno un pazzo: protestò contro i modi ed i metodi dell’Assemblea. Più tardi, inorridito dalle persecuzioni, prenderà egli stesso la via dell’esilio e farà pubblica ammenda al Pontefice per il suo comportamento di quegli anni. Però era un uomo del suo tempo, e del suo ceto ovvero l’alto clero: affezionato alla popolarità, agli applausi, a sembrare “al passo coi tempi”. Insomma, tenevano assai a ben comparire nei salotti dove i filosofi dei lumi – allora così alla moda – tenevano banco. E a loro modo di vedere lo facevano “per il bene della Chiesa”: pensavano che, tolte di mano le armi ai critici, la fede sarebbe rifiorita. Tolti gli “abusi”, tornati ad una vaga ed indistinta “chiesa primitiva”, molti sarebbero tornati al gregge cui in fondo erano sempre stati legati, ma da cui s’erano allontanati. Rimossi gli ostacoli, chissà quali magnifiche sorti e progressive si sarebbero avviate. Non fu così. Par di sentire Paolo VI: “Col Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno.”
Inizia la discesa…
Talleyrand, l’anima nera e davvero sulfurea dei tempi della Rivoluzione. Chissà perché nessuno si ricorda che era un vescovo consacrato
La Costituzione civile del clero nacque in realtà da un proposito assai più modesto: ché, come abbiamo detto, presentarla da subito nella sua interezza avrebbe causato rigide opposizioni. Il mandante è da cercare nello “spirito dei lumi”, di cui erano imbevute le elites culturali ed economiche del tempo, specie nella Francia degli enciclopedisti. Uno spirito intriso fino alle midolla di razionalismo, che considerava una barbara superstizione da demolire per il bene del genere umano. Gli esecutori materiali, le classi elevate della società: molti nobili, quasi tutti i borghesi e diversi alti prelati. Anche i più moderati di costoro non negavano – pena l’essere additati come retrogradi – le “molteplici nefaste influenze” che la Chiesa avrebbe avuto sul progresso civile e sociale della Francia.
Sia ben chiaro: che la Chiesa godesse di diversi privilegi è innegabile; che alcuni di questi privilegi fossero obsoleti lo è altrettanto. Ma mentre per i riformisti la lotta a questi privilegi era l’ingenuo fine, per i rivoluzionari esso era solo un paravento, una scusa. Questi – in una mescolanza di ritrovato gallicanesimo e mai sopito giansenismo – si proponevano una Chiesa più libera, più moderna, più conforme allo spirito dei tempi e meno vincolata alla Sede di Pietro; quelli invece si proponevano la distruzione della Chiesa. Ma per ora erano minoranza. Se questo spirito dei lumi non avesse pervaso gran parte di dei primi, ciò che avvenne non sarebbe accaduto.
Il 2 novembre 1789 l’Assemblea aveva approvato (568 voti contro 346) la proposta di Talleyrand che la Chiesa – a causa del grave deficit del bilancio statale e della crisi economica in cui versava la Francia – “mettesse a disposizione” della nazione i propri beni. Le parole sono importanti: “mettere a disposizione” è un termine fumoso, e può significare molte cose. Questo è fondamentale: usare termini vaghi, in cui ciascuno possa vedere ciò che fa al caso suo, sia esso una scusa per ricredersi o un motivo per ritenere raggiunto il proprio scopo.
Il beato Noel Pinot. Cappellano dell’ospedale degli incurabili di Angers e poi parroco di Le Louroux-Béconnais, dopo la Rivoluzione rifiutò di prestare giuramento per l’osservanza della costituzione civile del clero e fu destituito. Più volte processato, fu condannato alla ghigliottina con l’accusa di fanatismo religioso: venne condotto al patibolo rivestito dei paramenti religiosi e decapitato.
Dovessi inventarmi un paragone più moderno: è come se alla parola “aborto” si sostituisse “interruzione di gravidanza”: i pro vi vedrebbero comunque raggiunto lo scopo, ed i contro “a la pàge” potrebbero comunque spergiurare che l’adozione è esclusa. Ma questi inganni potevano aver successo nel XVII o XVIII secolo, non in epoche assai più avanzate e civili.
“Mettere a disposizione”: era la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici. Anche questo passo era stato preceduto da interventi “preparatori”: su tutti, l’euforia collettiva della notte del 4 agosto 1789, dove gli ecclesiastici proposero (mons. Fare, vescovo di Nancy) e votarono l’abolizione dei diritti feudali e delle decime. Abolire le decime significava poggiare le entrate ecclesiastiche solo sulla proprietà fondiaria della Chiesa, una proprietà spesso lasciata in totale gestione ed uso a contadini, mezzadri, piccoli allevatori e fittavoli, e che quindi tornava a buon pro dei più poveri. Togliere anche questa proprietà – oltre ad indebolire le classi meno agiate che si volevano favorire a parole – significava avere a propria discrezione la sopravvivenza del clero.
Infatti la nazionalizzazione dei beni comportò la presa in carico – in senso economico – del clero da parte della nazione, che s’impegnava a versare a ciascun membro del “primo ordine” un congruo trattamento economico. In tal modo il clero diventava a tutti gli effetti membro del corpo dei funzionari dello Stato.
I lealisti della Vandea che non riuscirono a scappare
Dicevamo: la proposta della Costituzione civile del clero nacque da una “scusa” assai più modesta. Visto che gli ecclesiastici erano ormai dipendenti dello Stato, il Comitato ecclesiastico dell’Assemblea venne incaricato di ridisegnare le diocesi ricalcandole sui nuovi confini dei dipartimenti civili. Non gran cosa, in fondo. Ma il presidente del Comitato conte Treilhard aveva ben altra missione: da subito (23 novembre 1789) propose al Comitato una bozza di “Costituzione civile del clero”, in cui la questione dei confini delle diocesi era la meno significativa delle riforme. Ben più importante, vi si proponeva in un colpo solo l’elezione dei vescovi da parte dei fedeli, la riaffermazione delle libertà gallicane ed il giuramento di fedeltà alla Costituzione da parte degli ecclesiastici.
Questo era troppo anche per i membri ecclesiastici del Comitato, che riuscirono a bloccare il progetto. Teilhard allora chiese all’Assemblea di raddoppiarne i membri: i nuovi arrivati ovviamente condividevano la visione del presidente e quindi la bozza venne presentata all’aula, che dopo un fiacco dibattito la approvò il 12 luglio 1790. Durante la discussione in Assemblea, gran parte degli ecclesiastici abbandonò i lavori. La disillusione era finalmente arrivata, ed era solo all’inizio. Il completo risveglio avrebbe richiesto ben altro tributo. Gran parte del clero si accorse finalmente che non c’era alcuna intenzione di aiutare o migliorare la Chiesa: si voleva solo annientarla. Per la prima volta, nell’aula risuonò la parola “scisma”. Eppure, accadde l’incredibile.
…che diventa rovinosa
Un bel ritratto giovanile del buon Luigi XVI, “l’ultimo sole di Francia”
Luigi XVI era, di suo, un brav’uomo. Certo non aveva un’intelligenza rapida e pronta: per capire le questioni aveva bisogno di tempo e calma. Per deliberare poi, la sua estrema indecisione richiedeva molteplici pareri: faceva suo quello che andava per la maggiore tra i suoi consiglieri. Tentennava insomma, e la Storia gli ha affibbiato un appropriato soprannome.
Già durante la discussione in aula, s’era sentito chiamato in causa da Boisgelin circa la convocazione di un Concilio nazionale: sondata l’Assemblea e capito che la maggioranza non avrebbe gradito, aveva fatto sapere di non gradire la proposta. Bisogna pur capirlo il pover’uomo: da poco (6 ottobre 1789) i parigini erano andati a bussargli all’uscio di casa a Versailles con tanto di fucili, e l’avevano fatto traslocare in città alle Tuileries: sia mai che l’aria di campagna l’avesse invogliato a fare una cavalcata fino ai confini del Regno per rifugiarsi dal cognato Asburgo. Logico quindi che fuggisse lo scontro. Visto che però era sinceramente devoto, aveva avviato dei contatti con Roma per capire che fare con quest’altra tegola che gli pioveva addosso. Sì, perché per la Costituzione l’Assemblea votava le leggi, ma il re doveva ratificarle.
Pio VI il 10 luglio 1790 con un apposito Breve aveva fatto sapere a Parigi che considerava scismatico il documento. Conosceva però l’individuo: gli fece sapere di fidarsi del parere dei due ecclesiastici del suo Consiglio, ovvero mons. Champion de Cicé, arcivescovo di Bordeaux e mons. Lefranc de Pompignan, arcivescovo di Vienne. Che avrebbe dovuto fare il Pontefice? Andar lui a Parigi a capire come andavano le cose? Faceva affidamento sui vescovi locali, che meglio conoscevano la situazione e che a suo parere avrebbero ben potuto individuare le giuste mosse per cercare di sventare il piano.
Eppure, accadde l’incredibile.
I massacri di settembre, l”apogeo dei lumi
Lefranc era fuori dai giochi: anziano e malato, morirà a dicembre dello stesso anno.
Con Champion de Cicè invece si andava “sul sicuro”: era amico e protettore dell’enciclopedista Turgot. Belle frequentazioni per un arcivescovo: come se un Pontefice andasse a lezioni da un pastore evangelico pentecostale. A suo tempo aveva disposto nella sua diocesi preghiere pubbliche per il successo degli Stati Generali. Visto però il Breve pontificio, ed essendo uno dei tanti che avrebbe voluto incontrare il pubblico favore con le terga ben salde sulla seggiola, si limitava a sussurrare a Luigi che purtroppo non c’era altro da fare che firmare.
Cupio dissolvi? Cecità oltre ogni limite? Buona fede a livelli patologici? Più facilmente, un miscuglio di tutto ciò. Era in buona compagnia, intendiamoci.
A nome di tutti i vescovi francesi (tranne 4), Boisgelin de Cucè pubblicò una “Esposizione dei principi” per protestare ma in cui, per dirla con Mathiez “tendeva più a dimostrare l’impossibilità di eseguire la riforma ecclesiastica senza l’avallo e la collaborazione della Chiesa francese, che non ad affermarne l’irricevibilità”. In privato l’arcivescovo consigliava moderazione al re, e soprattutto di non esasperare gli animi prima della Festa della Federazione (14 luglio 1790) “per non turbare la coscienza di quei vescovi che sono anche deputati all’Assemblea (come lui, NdA), che dovranno prestare giuramento di fedeltà alla nazione…”.
Luigi aveva chiesto al Pontefice di approvare la legge: nessuno dei suoi consiglieri gli aveva detto che il Papa non poteva approvarla. Scrisse a Pio VI: “La mia intenzione pubblicamente dichiarata è di prendere le misure necessarie per l’esecuzione della legge”: i suoi consiglieri sia ecclesiastici che laici – in particolare il conte di Montmorin, che verrà massacrato nel 1792 – da un lato lo incoraggiavano circa il buon esito della richiesta, dall’altro gli prospettavano la grave posizione in cui si sarebbe messo davanti all’Assemblea.
Messe dei preti “refrattari” nella gloriosa regione francese della Vandea “terra di martiri e di testimoni della Fede” coraggiosamente celebrate anche durante la terribile e sanguinosa persecuzione dei fedeli Cattolici per mano dei “libertari” rivoluzionari francesi ( stampe XIX sec.)
Il 1 Agosto 1790 lo stesso Boisgelin (in un carteggio rinvenuto nell’armadio di ferro delle Tuileries nel 1792) in pratica rassicurava il re sul lieto fine della supplica a Roma, ridotta a mere “forme di diritto canonico”: “laddove manchino le regolari forme canoniche, il Pontefice vi può supplire. Lo può, lo deve fare e lo farà, perché in questo senso vanno le richieste che Vostra Maestà gli ha fatto…” . Estenuato e pressato, il 24 Agosto 1790 Luigi XVI firmò. La Costituzione civile del clero divenne operativa.
Era un buon cattolico, Luigi: quando il Papa respingerà la normativa, farà voto di servirsi solo di preti “refrattari”. Tutti i vescovi tranne 4, davanti all’alternativa tra prestare giuramento diventando scismatici e la fedeltà a Roma, emigrarono. Compresi i campioni che avevano consigliato il re di firmare, lasciandolo solo a pelare la patata bollente di un’Assemblea che, ormai, stava diventando sempre più tracotante. Poco più di un anno dopo, i preti refrattari verranno ripagati con l’esilio. In capo a 2 anni, i massacri di settembre e l’avvio della ghigliottina. Circa 30.000 sacerdoti verranno uccisi, imprigionati o espulsi.
Parallelismi
Il massacro delle Carmelitane per mano dei rivoluzionari.
Basta leggere i giornali, et voilà i Bosgelin ed i Champion. Il mondo è pieno di prelati che, per un applauso, cedono allo spirito del mondo. D’altra parte, c’è pieno anche di politici alla Luigi XVI. Non è una novità che la democrazia si basi sul consenso. Non a caso Churchill diceva: “La democrazia è un pessimo sistema, ma tutti gli altri sono peggiori”. Davanti ad un mondo che si va scristianizzando, è facile immaginare cosa bisogna fare per ottenere consenso ed applausi. Cedere. Ma non si illudano costoro: l’obiettivo non è modernizzare o migliorare la Chiesa o la società. E’ demolirle. Per fare posto ad una massa di pecore senza principi o remore, addomesticabile, prona ai voleri ed alle indicazioni del potente di turno. Salvo poi innalzare la ghigliottina anche per quelli di cui ci si è serviti per raggiungere lo scopo. Se prima rotolarono le teste di vescovi e preti “refrattari”, non molto dopo toccò anche agli stessi “costituzionali”.
Voglio dire: la coscienza è uno strumento terribile. Nelle mani di un cattolico poi è qualcosa di inesorabile: ti indirizza, ti blocca, ti sprona. Ti indica ciò che è giusto, rendendoti indifferente all’interesse, al guadagno, all’applauso. E questo non va.
Il potere non può tollerare queste indipendenze, questi ostacoli. Ha bisogno di gente davanti alla tv o negli stadi, gente docile cui bastino i moderni “panem et circenses”.
Questi prelati e questi politici che si dicono cattolici dovrebbero imparare dalla Storia: non sarà loro permesso di conciliare Cristo ed il mondo. La Storia è madre e maestra. Luigi XVI nel proprio testamento si pentì di aver firmato la Costituzione civile del clero. San Tommaso Moro, venuto a conoscenza che il suo accusatore John Rich, in cambio della falsa testimonianza per condannarlo, era stato nominato procuratore del Galles esclamò: “E’ già un cattivo affare perdere la propria anima per tutto l’oro del mondo. Ma per il Galles, poi!”. E per un applauso?
Family Day. O del perché nessuno ha sentito la mancanza dei vescovi. Nemmeno di quello di Roma. Lo scollamento fra i cattolici e le gerarchie.
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di Marco Sambruna
Di questi tempi si sperimenta una strana sensazione: è come se il papato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI fossero lontanissimi nel tempo, quasi appartenessero a un’altra epoca storica.
E’ come osservare un quadro del Rinascimento sullo sfondo di un panorama industriale: il soggetto è completamente decontestualizzato rispetto allo sfondo e l’osservatore ne ricava sensazione di disorientamento straniante. In occasione del Family Day si è avuta l’impressione che il soggetto principale della rappresentazione – la famiglia naturale – fosse avulso rispetto allo scenario retrostante così tetro e silenzioso da apparire nettamente incoerente con i colori e i rumori della manifestazione di piazza gremita di famiglie.
La differenza fra l’atonia dello sfondo e la tonicità del soggetto è tale che pare inconcepibile che quello sfondo possa avere una relazione con quel soggetto.
Su quello sfondo peraltro si staglia la sagoma inquietante di qualcosa di anonimo e impenetrabile come accade in certi quadri di Mario Sironi in cui, ad accentuare il senso di oppressione, c’è una presenza misteriosa e indecifrabile: un palazzo sordo e grigio con le finestre simili a vani oscuri di cui si intuisce l’intima natura rappresentativa che è quella di una solitudine ostinata e ostile.
Il Palazzo dunque che si erge alle spalle del Family Day appare pressoché disabitato, o meglio abitato solo da qualche solitario inquilino completamente isolato dal resto della scena. Solitari, un po’ ostili e stizzosi i pochi e sparuti condomini guatano dalla finestra l’assembramento che accade nella piazza di sotto; decidono allora di convocare a Palazzo quelli che sembrano agitarsi troppo per ricordare loro la prima delle ferree norme del regolamento condominiale la cui giurisdizione riguarda anche la piazza sottostante: niente schiamazzi che possono disturbare.
Forse per questo i leader della manifestazione di sabato si sono limitati a qualche timido saluto ai partecipanti senza esprimere alcun ragionamento articolato: l’amministratore condominiale tramite qualche suo portavoce ha ricordato loro che nel Palazzo i perturbatori della quiete non sono graditi. Quindi è meglio fare silenzio.
Il Fantasma
Un fantasma sabato 30 gennaio aleggiava al Circo Massimo: il fantasma dell’assenza della CEI e dei suoi vescovi, compreso quello di Roma.
Assenza, beninteso, non solo fisica, ma anche mediatica: infatti la chiesa odierna così attenta a catturare il focus televisivo stranamente non ha avvertito l’esigenza di inviare un messaggio di solidarietà ai partecipanti del Family Day che pure ha ricevuto ampia copertura mass mediatica evidentemente anche, ma non solo, con letture riduzioniste.
Perfino alcuni imam islamici hanno voluto idealmente partecipare alla marcia romana inviando i loro auspici agli organizzatori; perfino alcune associazioni di lesbiche si sono schierate decisamente contro l’adozione perché spalancherebbe le porte all’odiosa pratica dell’utero in affitto, la commercializzazione consumistica del ventre delle donne, specialmente se povere.
Alcuni ambienti cattolici hanno invocato quale pretesto della loro assenza il fatto che il DDL Cirinnà, fatto salvo lo stepchild adoption, non prevede l’adozione per le coppie omogenitoriali anche se di contro pare essere prevista una sorta di affido esteso, tale da accostarsi alla fattispecie dell’adozione.
Tuttavia ciò che preoccupa maggiormente è una sorta di effetto domino che una volta avviato difficilmente si potrà fermare.
È venuta a mancare all’affetto…
Le due teste… della CEI. In genere l’uno smaglia il lavoro dell’altro. Galantino, colonnello di Bergoglio e Bagnasco presidente della Cei
Detto questo da parte della gerarchia, degli organismi e dalla stampa ufficiali vaticani, sia prima che dopo l’evento è giunto solo qualche querulo e sommesso sospiro di decenza a ricordare la manifestazione. Vagolanti gemiti mormorati a mezza voce simili a quelli che si odono nei corridoi gelidi di un obitorio.
Sabato pomeriggio, con l’eccezione del vescovo di Campobasso monsignor Bregantini e forse nessun altro, in piazza gli esponenti della gerarchia cattolica erano completamente assenti non solo fisicamente e quindi direttamente, ma anche simbolicamente e quindi indirettamente.
La presenza CEI tuttavia è stata garantita proprio dalla sua assenza: la presenza di un assenza tanto più fragorosa in quanto silenziosa e che, ci si sarebbe aspettati, avrebbe dovuto suscitare l’amarezza, le critiche, la delusione del popolo cattolico riunito a Roma per il Family Day.
E invece niente: da parte dei manifestanti non una parola sulla presenza di quell’assenza, non una lamentela sul men che blando appoggio del vescovo di Roma, non un accenno ai monsignori che hanno disertato la manifestazione, nessun riferimento alla gerarchia da parte della gente intervistata, nessun accenno polemico, nessuna allusione dagli striscioni e cartelli vari agitati durante la manifestazione.
Quella presenza – assenza è stata completamente ignorata dal popolo cattolico come se la Chiesa fosse qualcosa di estraneo e di inutile se non addirittura controproducente per la causa della famiglia naturale ancor prima che tradizionale.
Lo scollamento fra i cattolici e la Chiesa bergogliana è così evidente che ormai perfino l’amarezza e il senso di delusione sono bypassati all’insegna di uno slogan silenzioso che per vie misteriose si è radicato nella mente e nel cuore di credenti e non credenti che difendono la famiglia cristianamente intesa: “rimbocchiamoci le maniche e facciamo da soli perché tanto dalla chiesa bergogliana non dobbiamo aspettarci nulla”.
Claptocrazia clericale
Il Family Day, al Circo Massimo. Un popolo di cattolici. Laici. Solo laici
L’oblio di quella presenza – assenza non è un buon segnale per la gerarchia claptocratica fondata sull’applauso: riceve solo qualche altezzoso cenno di assenso da chi è fuori di essa, mentre è percepita con la massima indifferenza da chi si riconosce nella sua dottrina.
Una gerarchia che si illude di godere, grazie alle amplificazioni mass mediatiche, di un seguito oceanico fra i cattolici, ma che in realtà interessa prevalentemente e per mero calcolo ideologico appena qualche drappello intellettualoide e alcuni aggregati di yesmen che applaudono solo a causa di un riflesso condizionato di marca pavloviana.
Una frazione di Chiesa lasciata indietro e superata non perché non più al passo con la modernità relativista alla quale anzi sembra volersi adeguare, ma perché lontana dal cuore della gente, ossia percepita ormai come inutile, controproducente e come tale marginalizzata ai confini della storia che si fa carne, che si schiera e che rischia se stessa in un’ idea, quello della famiglia naturale, che non è semplicemente un progetto, ma un fondamento senza il quale si avvia una mutazione antropocentrica che è anche una mutilazione antropologica destinata a sfociare verso un imponderabile dai tratti tenebrosi: già si comincia a parlare infatti di leggi sulla poligamia e sulla poliandria.
Rigor mortis
Sabato 30 al Circo Massimo si è celebrato contemporaneamente un funerale e un battesimo: accanto alle esequie del cadavere di una parte della Chiesa congelata dal gelido abbraccio dei machiavellismi cui si è consegnata, irrigidita nel rigor mortis del suo moralismo conformista e autoritario veicolato dai proclami sovietizzanti in cui prevale l’idea che non legale ciò che è etico, ma è etico ciò che è legale, aleggiava infatti lo spirito di una Chiesa che vuole agire come soggetto dotato di una propria identità ontologica che non è animata da alcuna ansia di rinnovamento rivoluzionario che altro non è se non l’adeguamento conformista.
Una Chiesa che vuole parlare in termini di “si, si, no, no” e non più in termini di “ni, ni, etc., etc.” dove a quell’etc, etc. è possibile far seguire tutto e il contrario di tutto.
Ma grazie a Dio, lo Spirito non solo soffia dove vuole e come vuole, ma anche presso chi vuole, vale a dire, se necessario, anche senza ricorrere a intermediazioni gerarchiche.
Al Circo Massimo due chiese si sono confrontate: quella che c’era, palpabile e visibile nella sua materialità fatta di persone e volti che possiamo perciò definire come “chiesa reale” nel senso etimologico del termine che indica qualcosa di concreto e dotato di una sua densità di contro a quella che non c’era né fisicamente, né simbolicamente, ossia una chiesa priva di consistenza materiale, fantasmatica, ma che, nonostante ciò, si offre come rappresentativa del cambiamento, dell’innovazione e che sembra conformarsi perciò a uno dei più noti slogan collettivi manipolatori e truffaldini, il “nuovo che avanza” dove con quel “nuovo” si tenta sempre di connotare positivamente ciò che avanza o vorrebbe avanzare.
Tuttavia dopo la giornata del Family Day che ha sigillato col marchio dell’indifferenza la presenza – assenza della chiesa evanescente che vorrebbe qualificarsi come “nuovo che avanza”, il “nuovo” che si illude di essere tale perde la maschera e si rivela per quello che è ossia la riproposizione di un vecchio schema operativo contrabbandato come novità: il rifiuto cioè di sostenere apertamente la mobilitazione rivela il meccanismo di una stantia e vetusta prassi di dialogo che quasi sempre consiste nell’ autodenigrare la propria storia per incensare quella altrui, oppure, più precisamente, nell’autodemolire ciò che si è sempre difeso per riabilitare ciò che si è sempre avversato.
E non c’é dubbio che all’interno della propria storia la chiesa abbia sempre riservato un posto di primo piano alla famiglia naturale.
La messa a nudo dell’antico e polveroso schema le cui origini risalgono all’immediato post concilio, rivela così il vero volto della chiesa progressista e rivoluzionaria che di nuovo ha ben poco: il “nuovo che avanza” ha in realtà la fisionomia di un “vecchio che arretra” costretto per sopravvivere a ridursi a mansioni servili di rinforzo alla dittatura radical chic del conformismo borghesuccio con tanti saluti al poverismo liturgico, dottrinale e pastorale talvolta ostentato con orgoglioso e quindi narcisistico snobismo.
Non una chiesa povera, ma una povera chiesa
Tuttavia se la chiesa del “nuovo che avanza” di nuovo ha ben poco sul piano della prassi operativa, questo non significa che non presenti elementi di novità.
La vera novità della chiesa che segnala la sua presenza tramite un’assenza è che riesce a comunicare sue notizie solo tramite la totale mancanza di nuove notizie e quindi comunica solo la sua incapacità di comunicare. L’attuale chiesa infatti che vorrebbe essere “una Chiesa povera per i poveri” in realtà è certamente una chiesa povera, ma non solo per i poveri, bensì per chiunque: è una chiesa povera se non addirittura misera non solo dal punto di vista materiale, degli orpelli, dei paramenti e dell’arredo sacro, ma è anche e soprattutto una chiesa povera di notizie o se si preferisce di buone novelle; così povera di notizie o di buone novelle che di fatto non avendo più alcuna buona novella da trasmettere riesce a segnalare la sua presenza solo tramite la sua assenza fisica e simbolica e a comunicare in definitiva solo la sua incapacità di comunicare, cioè la sua incapacità di trasmettere qualcosa che gli appartenga in modo originale.
In altre parole è una chiesa che si presenta a mani vuote perché non ha più nulla di proprio da trasmettere cioè da offrire: in questo senso possiamo dire senz’altro che questa chiesa è povera, anzi poverissima o miserrima. E non avendo nulla da offrire perché ha rinunciato all’originalità della sua trasmissione, ossia la verbalizzazione della buona notizia o novità per eccellenza, per segnalare la sua esistenza in fondo può fare solo quello che fa: prendere a prestito da qualcun altro un sottoprodotto succedaneo della novità che ha perduto, cioè sostituire l’impossibilità di trasmettere la buona novella che storicamente ha sempre trasmesso con la comunicazione di notizie di seconda mano.
Perché infine se la chiesa oggi non trasmette più nuove notizie non significa affatto non comunichi più nulla: semplicemente anziché trasmettere cioè tramandare, comunica cioè condivide una funzione. La vera rivoluzione che ha subito la chiesa attuale riguarda quindi il suo linguaggio, cioè il suo modo di relazionarsi col mondo: non potendo più trasmettere la buona novella può solo comunicare qualcosa che sa di rimasticato e di già sentito cioè che di nuovo non ha nulla: il rumore sociale e la cronaca spiccia prodotti dai mass media.
Ecco qui un maggiordomo un po’ attempato in un salotto di prestigio che si sforza di apparire disinvolto per non rischiare di perdere il posto.
E con l’incarico di spegnere la luce quando tutti sono usciti.
Una inedita rivisitazione delle vite e soprattutto delle morti degli anticattolici, e sovente massoni, Capi del Governo nel Regno d’Italia: da Cavour a Rattazzi, da La Marmora a Zanardelli, da Crispi a Fortis sino a Giolitti e Mussolini. Alla riscoperta di certi dettagli – ma determinanti – delle loro biografie che qualcuno ha scientemente dimenticato di annotare o di quelle pagine finali e segrete che qualche lesta mano non ha dimenticato di strappare a cadavere ancora caldo: la fede ritrovata o mai perduta, in ogni caso “riservata”, dei Primi Ministri del Re d’Italia.
di Antonio Margheriti Mastino*
Da Cavour a Renzi, dacché l’Italia è unita ha avuto in tutto 56 capi del governo, dei quali 28 sotto la monarchia. Soffermiamoci su quest’ultimi.
28 capi del governo che, eccettuate oggi impalpabili sfumature, in realtà costituirono una casta politica omogenea, culturalmente e socialmente. Tutti quanti liberali di pallide differenze, provenivano anche dal medesimo ambiente: la immobile piccola aristocrazia provinciale, della terra, delle professioni, delle rendite. E tutti insieme in egual misura non solo non conoscevano il popolo ma ne provavano anche intimamente ribrezzo. Erano i “Notabili”.
Un’altra cosa ebbero quasi sempre in comune: l’affiliazione massonica, spesso nei massimi gradi. E, va da sé, l’anticlericalismo. Ufficialmente “indifferenti”, si guardarono bene dall’ammettere qualsiasi preferenza religiosa, oltre il distratto ossequio a quella cosa indefinibile che era il Grande Architetto: tacendo, assentivano all’idea collettiva che probabilmente di agnostici o di atei si trattava. In ogni caso anticattolici. E così la leggenda ufficiale li ha consegnati alla storiografia: discorso chiuso. Che va riaperto assolutamente: si scoprirebbe che non solo molti di loro nella massima discrezione erano cattolici osservanti, non solo accettarono e addirittura implorarono i sacramenti in “articulo mortis” ed ebbero spesso funerali in chiesa, ma che addirittura taluni si convertirono al cattolicesimo… e non dall’ateismo!
cavour riceve “illecitamente” gli estremi conforti
Sì perché pochi lo sanno, ma tra i nostri capi del governo non tutti furono battezzati cattolici. Crispi, di origine albanese, nacque greco-ortodosso e il padre era un pope; Luigi Luzzatti era ebreo e d’origine ebraica era Alessandro Fortis; Giorgio Sidney Sonnino poi era anglicano e per metà ebreo; Ricasoli dato molte volte per misticheggiante e più che altro invasato, cattolico lo è pro forma: nelle lettere private manifesta una identità riformata e magari puritana e calvinista.
Nelle biografie ufficiali è tempo perso: le loro vite si concludono in un grande silenzio finale al sopraggiungere dell’attimo supremo, ci si glissa. Eppure, a scartabellare negli incartamenti privati di tanti premier italiani, dati pacificamente per massoni e agnostici e decisamente allergici alle chiese, ai preti e ai sacramenti, i conti iniziano a non tornare.
Cavour fa carte false, in hora mortis, per ottenere la comunione e l’assoluzione (e darne notizia sui giornali) benché fosse uno scomunicato “maggiore”; il religioso che infine contro il parere del Vaticano gliela concesse, fra’ Giacomo, ne risultò sospeso a divinis.
Il presidente Rattazzi e don Bosco. Cartolina
Urbano Rattazzi, personaggio savoiardo taciturno e criptico, con un che di femmineo nell’eloquenza, dalla vita misteriosa anche per i suoi coevi (e più misteriosa che mai per non dire equivoca fu la donna che in tarda età sposò, e che infine, vedova, oltre a disperdere l’archivio del consorte rimase invischiata in un delitto parigino a sfondo lesbico), costui, dicevo, si apprende in Don Bosco che ride fu salvato in extremis proprio dal santo di Valdocco, che gli diede l’assoluzione e i sacramenti. In effetti, firmatario e ideatore delle leggi che depredavano la chiesa italiana delle sue proprietà, mi racconta lo scrittore cattolico Vittorio Messori, torinese e che sul Risorgimento fece la sua tesi di laurea con, ama sottolineare, “i maestri del laicismo”: «Rattazzi, nottetempo, avvolto in un tabarro, andava spesso da don Bosco, a Valdocco. Mentre di giorno contribuiva pesantemente alle soppressioni di istituti religiosi, di notte Urbano dava consigli al Santo per aggirare la legge e non essere soppresso nella sua nuova congregazione. Per questo i salesiani hanno nomi diversi da ogni altro: il Superiore Generale si chiama da loro Rettor Maggiore, le province dei religiosi diventano ispettorati, i candidati alla vita religiosa mantengono i loro beni e non li cedono alla comunità… and so on, per simulare una “laicità” che, ovviamente, non c’era».
Luogotenente negli ex Stati Pontifici, aperta la Breccia di Porta Pia dai bersaglieri che egli stesso aveva creato, il generale Alfonso Ferrero La Marmora, che non poco sangue aveva sparso nella sua controversa carriera militare, inizia il testamento raccomandando “l’anima mia a quel Divino e Onnipotente Creatore” al quale riconosceva ogni “prodigalità di beni” nella sua vita; aggiungeva di voler essere sepolto nella chiesa di San Sebastiano a Biella; concludeva con disposizioni su funerali, elemosine, preghiere e funzioni sacre, che fossero «secondo gli usi e precetti della Chiesa Cattolica, alla quale grazie a Dio ho sempre appartenuto».
La Presa di Porta Pia: una satira ottocentesca del Presidente La Marmora, fondatore dei Bersaglieri, e di Pio IX
Giuseppe Zanardelli, ferrigno e puntiglioso gentiluomo, massone, anticlericale, riformatore del codice in senso radicale sino a proporre, durante il suo governo, l’introduzione del divorzio, in realtà poi da avvocato e da privato fu protettore e benefattore di una infinità di ordini religiosi specie femminili, avendo due sorelle monache; sentendo vicina la fine, scrive al suo celebre amico mons. Bonomelli: «Io la invidio perché impetro quella fede che La anima e che me non assiste, per quanto la consideri una grande benedizione e l’abbia sempre, ma invano, invocata».
Del presidente della vittoria, il facondo Vittorio Emanuele Orlando, siculo, giurista liberale della nuova leva giolittiana, sepolto in Santa Maria degli Angeli, è un suo futuro successore, che fece in tempo a conoscerlo, Andreotti, a ricordarne la fede convintamente cattolica e l’aiuto effettivo “ben oltre i doveri d’ufficio” – ammetterà Orlando allora ministro dei culti – che diede a Pio X, per il quale provava “grande affetto”, nientemeno che a scovare e reprimere il modernismo dentro le istituzioni ecclesiastiche.
Ci sarebbe da dire anche di Francesco Saverio Nitti, e in effetti ne ho detto diffusamente nell’originale di questo articolo, ma qui per non dilungarmi sorvolo, e semmai ne diremo presto in un articolo a parte. Solo si sappia che il Presidente Nitti era un radicale primi novecento, vale a dire la corrente più anticlericale agnostica e massonica del liberalismo; antifascista della prima ora, lingua lunga e acuminata (velenosa anche) come poche nella storia patria; pessimismo intramontabile il suo, qualcuno ci vide solo malignità, ma magari era solo realismo. E tuttavia, quest’uomo colto, polemicissimo su tutto, critico su troppi, nulla e nessuno avendo risparmiato in vita sua con la penna o – peggio – la bocca, e quasi sempre con grande ingenerosità, per la storia cattolica mostra grande deferenza. Stranamente.
A quanto dicono, è il Duce, in preghiera, prima dell’esecuzione
Si è narrato da più parti che un inveterato anticlericale e agnostico come Mussolini che da giovane andava declamando il carducciano Inno a Satana sfidando pubblicamente Dio a “fulminarlo” se fosse davvero esistito, autore in gioventù di romanzetti pruriginosi che avevano per protagonisti venali e carnali prelati, ormai caduto in disgrazia, morì piamente con tutti i sacramenti; il che è anche vero, solo che la sua conversione risaliva a molto prima, in realtà: dopo la morte del figlio Bruno, infatti, il duce rifletté su tutta la sua vita e sugli assoluti, ritrovando non solo la fede, ma diventando anche convinto cattolico, ancorché in discrezione.
FRANCESCO CRISPI
L’ANTICLERICALE CHE VOLEVA VEDERSELA DIRETTAMENTE CON DIO
Francesco Crispi. busto di francesco jerace
«Non ho bisogno del prete: con Gesù poi me la vedo io». Gli 83 anni, il coccolone estivo, la lunga agonia stavano consumando la carne dell’antico presidente Crispi, ma l’anticlericalismo era ancora vivo e vegeto, e fu l’ultima cosa a morire in lui. Così vuole la leggenda almeno.
Lo guardava adesso, agosto 1901, lì morente quel vecchio giaguaro siculo-albanese che con le unghie e i denti e balzi felini pericolosi per tutti e soprattutto per se stesso, avrebbe voluto “creare la Nazione”, a sua immagine e somiglianza, come un’appendice di se stesso, quando poi nessuno era riuscito ancora a fare gli italiani dopo aver fatto una specie di Unità: ora sembrava un vecchio uccellaccio bianco che non volava più. Era ormai un uomo del passato, da tanto, apparteneva alla storia dell’Italietta che fu, e l’unico a non essersene accorto: era venuta l’era giolittiana. Gli restavano ancora le illusioni, e i debiti: andava avanti a prestiti, era prossimo all’indigenza proprio come sarebbe stato per Fortis più tardi. Il quale, entrando nella sua stanza, lo aveva abbracciato erompendo in lacrime; alla fine fu Crispi a mantenere il contegno cercando di ristabilirlo nell’amico: «uhm… uhm!… cosa si dice alla Camera?».
Per il forlivese Alessandro Fortis, destinato come capo del governo di lì a poco a essere un suo successore, Crispi era stato più di un protettore e padrino politico: era un padre. Come lui partì mazziniano e per lui divenne poi garibaldino e come lui si fece radicale, per lui rinunciò al repubblicanesimo convertendosi alla monarchia. Quanto lui, ovviamente, s’accese d’anticlericalismo almeno finché fu suddito del papa-re. Da lui si fece iniziare al Gran Oriente D’Italia. Alla sua corte la carriera di Fortis si fece formidabile, eppure, infinitamente diverso nel profondo dal suo padre politico, ne rimase sempre e solo una pallida ombra, anche avendo doti intellettuali maggiori. Crispi era un arcigno monumento equestre già da vivo. Eccolo lì adesso: sic transit gloria mundi!
L’ultima immagine del presidente Crispi, già ultraottantenne, intorno al 1900
Fortis non lo lascia un momento, lo assiste devoto sino alla fine: è sinceramente addolorato, certe volte si commuove, e piange, e pensa. Che quel grande uomo lì, in fondo, restava un enigma: è certo che avesse passioni, ma non era detto avesse sentimenti. E spericolato infatti lo era rimasto sino alla fine: il presidente Alessandro è turbato dal rifiuto di ricevere preti in camera. E solo adesso rifletteva su un altro enigma: Crispi… se così si poteva dire, a che razza di religione apparteneva, semmai ne aveva una? Eppure era evidente che non si dichiarasse ateo: dopotutto aveva detto di volersela vedere “personalmente” con Gesù. Beh certo anche i massoni, e Crispi lo era sino al midollo, una specie di Dio lo professavano: un Grande Architetto, dai compiti indefiniti, non un Giudice, come quello cristiano. Lo sapeva bene lui, Fortis, che del Gran Oriente d’Italia raggiunse i vertici.
Ecco, qui a Fortis i conti non tornano: ortodosso, agnostico, forse ateo perché allora in morte arriva un prete cattolico? Non basta: Crispi fu accusato d’essere, e in effetti era, un bigamo per essere diventato giovane vedovo il marito di Rose Montmasson – l’unica donna imbarcata dai Mille – e al contempo, nel 1878, ormai anzianotto, aver anche impalmato, e dopo varie relazioni con nascita di figli, Lina Barbagallo. Aveva trovato la scusa di non aver contratto un matrimonio valido con Rose, ma i suoi avversari politici rintracciarono a Malta il certificato di matrimonio: non solo valido, ma cattolico! Anche se… il prete, un gesuita naturalmente “rivoluzionario”, era sospeso a divinis, e come novelli Renzo e Lucia gli sposi fuggiaschi lo tirarono a forza giù dal letto con l’atto già in mano.
Morte di Crispi, a Napoli nel 1901. Il crocifisso in capite al letto di morte
Eccoli lì, un ebreo d’origine, Fortis, e un greco-ortodosso non meglio identificato, Crispi. Ex premier e futuro premier. Due non cattolici e dubbi credenti, due massoni e anticlericali, governanti di un paese cattolico e clericale. Dinanzi alla morte, eccoli.
Eppure, rifletteva Fortis, quel moribondo lì aveva fondato la pentarchia col motto “il nemico principale d’Italia è il prete”; aveva forzosamente laicizzato le opere pie… eppure… Eppure collaborò attivamente col cardinale Pecci affinché dopo la morte di Pio IX il conclave non si svolgesse fuori da Roma per via della Questione Romana, come molti cardinali esigevano. Eppure fu difensore di molte congregazioni religiose, e di tante monache era diventato protettore, scambiandosi reciproche premure e, lui senza mai un soldo, non lesinò generose offerte.
il Presidente Crispi in agonia “da seduto”
Poi Fortis capì tutto: il vecchio lì, che agonizzante s’era fatto vestire di bianco e mettere in poltrona, come avesse solo l’influenza, non voleva accettare l’idea della morte, non la prendeva in considerazione, non ci voleva credere. Aveva solo un sospetto, che ne acuiva la superstizione: ecco perché non voleva ricevere preti, non li aveva scacciati, no: “non ne aveva ancora bisogno”, secondo lui. Lui che ancora immaginava d’essere il centro della politica italiana e non escludeva nemmeno il suo ritorno in scena. Illusioni e superstizioni di un vecchio egocentrico, non anticlericalismo. Lo capì definitivamente, Fortis, quando ormai, nonostante le iniezioni di caffeina, la situazione stava precipitando, e lo trasferirono dalla villa estiva di Posillipo a casa sua a Napoli. Non voleva essere messo a letto, ordinò che lo si collocasse nella biblioteca, su una poltrona. Poi, col suo piglio, aggressivo anche in agonia, domandò: «Il crocifisso!! Dov’è il mio crocifisso d’argento!?». Era in camera da letto. Glielo portarono: se lo fece saldamente legare al bracciolo della sua poltrona. Faccia a faccia: non era certo di morire, anche se stava morendo, però per cautela stava già “vedendosela con Gesù”. A modo suo, come sempre.
ALESSANDRO FORTIS
L’EBREO CHE VOLLE IL “FARMACO DELL’IMMORTALITÀ” PRIMA DI MORIRE
Alessandro Fortis. Busto di Emilio Gallori
«Forse ho l’uomo che fa al caso vostro… anche se dovrà usare qualche accorgimento: ma lui troverà il modo di passare, vedrete». Si trovava in un convento a Messina. Pio X è onestamente impietosito dalla lunga agonia “senza conforti” del presidente Fortis, benché li desiderasse al punto di suggerire egli stesso uno “stratagemma” per ottenerli; e capisce anche l’apprensione di questi due suoi amici che sono venuti a lamentarsene, Zandotti e Marchiafava, medici che papa Sarto condivideva col famoso politico massone. Non vuole nessun clamore confessionale: è un atto di carità cristiana, che richiede discrezione. Ecco allora che gli si affaccia alla mente quel rocambolesco pretino piemontese: tale don Orione. Con qualche “accorgimento”. Riuscì, e si riuscì anche a mantenere a lungo un rispettoso riserbo, come vedremo.
Non avrebbe mai immaginato che sarebbe giunta così presto, a 68 anni, ancora nel pieno delle forze com’era, da poco lasciata la presidenza del consiglio. Mantenne tuttavia una straordinaria serenità Fortis, quando, l’estate del 1909, in seguito a una setticemia uricemica capì che stava finendo: l’agonia fu lunghissima e terminò sotto natale.
Certo, era stato un barricadiero romagnolo, ma quel tanto che gli era necessario a “fare l’Italia” a uno come lui nato nello Stato Pontificio, vedendo in quello il principale ostacolo: finì in carcere, qualche suo compagno sotto le baionette. E il suo “anticlericalismo”, tutto sommato, per essere uno di origine ebraica che aveva studiato dagli scolopi, si riduceva solo a questo, a un trauma giovanile. Non pronunciò mai parole roboanti contro la Chiesa, tanto meno contro la fede dei cattolici, non ne covava risentimento pur giunto ai vertici della massoneria. Ragazzo sensibile sino alla somatizzazione delle sofferenze, rimase sempre un politico equilibrato, un oratore dalla parola calma, suadente e brillante, un uomo dal tratto carezzevole e dal carattere dolce e mansueto. Tutto il contrario del suo maestro, Crispi.
Il presidente alessandro fortis dipinto da giacomo balla
Anche ora, sul letto di degenza, non era cambiato: mansueto come un agnello. Non lotta contro la morte: aspetta paziente. Nel palazzo di piazza Grazioli, alle spalle della futura residenza di Berlusconi suo successore, una targa ancora lo ricorda, lì visse e morì il presidente Fortis, anche se quasi a nessuno ricorda più niente quel nome. Rimasto presto vedovo, ebbe accanto l’unica figlia, Maria, poi andata in sposa a un conte Saffi, famiglia storica del massonismo più oltranzista e odiatore non solo della Chiesa, anche disprezzatore della fede dei semplici.
I giornali ne parlano. E fanno notare che diversi preti hanno tentato di salire le scale di casa Fortis, ma che, per rispettare la volontà del malato, sono stati bloccati all’entrata dal genero Saffi e da non meglio identificati “sorveglianti”. Vale a dire da autentiche spie del Gran Oriente d’Italia col mandato preciso di impedire che Fortis vedesse dei sacerdoti: doveva ufficialmente morire senza sacramenti e da “ateo convinto”, o almanco da credente nel solo dio ammesso dai massoni, il generico, lontano e indifferente Grande Architetto, che certo non abbisogna di conforti religiosi. Dovevano fermare dunque il “Dio papista” sulla porta di piazza Grazioli, per non rovinare i titoli dei giornali post-mortem.
Si scrisse anche che grazie ai buoni uffici dei due medici di Fortis, Zandotti e Marchiafava, ferventi cattolici e dignitari pontifici, un prete forse era stato lasciato passare, ma non potette essere ricevuto nella camera di degenza; o magari che Fortis, sempre col consueto garbo, avrebbe declinato l’offerta degli estremi sacramenti. Quindi inutile insistere: il Presidente non gradisce, ripeterono. Già, il Presidente…
Don Orione ai tempi della morte di Fortis
I giornali riportarono anche la testimonianza della serva, Anna Grillo, una pia donna straziata di veder morire il suo buon padrone come un “senzaddio”… pari a quel genero Saffi che la sfotteva per la sua fede:
«Il Presidente era buono, gentile e caritatevole con tutti. Posso anche dire che non si vergognava di dire di essere cristiano. Permetteva volentieri che le persone di servizio andassero alla Messa domenicale. Più di una volta mi ha dato un po’ di denaro da dare a mia madre, dicendomi: “Dì a tua madre che preghi per me”. Quando si ammalò gravemente, mi faceva pena a vederlo morire così, e volevo mettermi d’accordo con il Dottor Enrico Zandotti, che era tanto religioso, ed era medico del Papa, ma aveva tanti occhi addosso; tutti ci stavano addosso, a me e a Pietro Bedei, non volevano che gli parlassimo di religione. Io avrei avuto male e beffe, se avessi tentato. Chi faceva la guardia era il Conte Saffi Rinaldo, che doveva certamente essere massone, perché, più di una volta, mi disse: “Come sei scema, Anna, a non mangiar la carne al venerdì!”».
E qui qualcosa comincia a non tornare.
Poi ci furono i funerali, costellati da tutte le insegne massoniche: il Gran Oriente diede ordine di bandire qualsiasi prete dalle esequie pubbliche e laiche in piazza Grazioli; non pago, stabilì che fosse staccata la crocettina dal coperchio della bara; non bastò, giunse ordine di coprire con un cappuccetto rosso repubblicano la croce in cima al carro funebre. Ma a quel punto i presenti non massoni – il popolo vero cioè –si indignarono e cominciarono a urlare e inveire contro i massoni. I quali non fecero una piega e coprirono la croce: il Presidente, si giustificarono, non avrebbe tollerato. Già, il Presidente…
il giovane deputato radicale e crispino ALessandro fortis, futuro premier, in una biografia
Dirà la buona serva Anna, che dal balcone di casa Fortis assisteva alle esequie:
«Il Presidente, vedovo da una vita, aveva un’amica: anch’essa era donna senza religione. Nell’ultima malattia, gli mettevo sotto il cuscino le immaginette sacre, gliele facevo baciare e lui lasciava fare… La figlia anch’essa, Maria, non ha avuto mai alcun pensiero perché il papà morisse da buon cristiano».
L’Osservatore Romano, dal canto suo, confermava tutte le tesi ufficiali:
«Parlando con questo o con quello, che gli erano più familiari, non si peritava di dire essere egli cristiano e di non disprezzare la Religione. Sciaguratamente, testimonianze notorie di essere morto confortato dalla religione egli non le ha lasciate. Si sa di un sacerdote che si era recato alla sua abitazione, desideroso di fargli visita; ma cortesemente gli fu detto che, stante la gravità del male, non era possibile introdurlo nella camera dell’infermo» e si augurava ogni misericordia divina per la usa buona anima. Eppure c’è un certo sentore di gnorri in queste righe…
Il Giornale d’Italia fa sapere che durante la malattia Fortis aveva ricevuto diverse lettere da preti amici, con profferte di sacramenti, «a tutte queste lettere ha fatto rispondere con egual cortesia, ma senza sfiorare lo scabroso argomento». Non vi è ragione di credere che il genero massone, Saffi, neppure quelle abbia fatto arrivare nella sua stanza, forse è vero quanto si dice, Fortis ha glissato sull’argomento, e avrà avuto le sue buone ragioni.
Era ormai vecchia la contessa Maria, l’unica figlia di Fortis andata in sposa al massone fanatico Saffi, quando nel 1943 don Luigi Orlandi, biografo di don Orione, in preda a un dubbio, l’andò a trovare nella casa paterna di piazza Grazioli, per sapere di quella vecchia faccenda dei sacramenti al padre. Non si sbilanciò: «Non ho argomenti né per negare né per affermare quanto lei dice». E questo è quanto.
Fortis, dopo la presidenza del consiglio, negli ultimi tempi della sua vita
Era questo il dubbio di don Luigi, tanti anni dopo. Già, perché l’uomo al quale Pio X aveva pensato in quel lontano 1909 era proprio il fondatore della sua famiglia religiosa, La Piccola opera della Divina Provvidenza: don Luigi Orione, deceduto nel ’40. Il suo figlio spirituale lo ha scoperto da poco, scartabellando negli archivi privati del fondatore per compilarne la biografia: una serie di lettere, appunti, e un “buco” soprattutto, di alcuni giorni dove non si sa che ha fatto don Orione, benché risultasse in convalescenza in quel di Messina, diocesi della quale era per giunta vicario generale. Era solito don Orione fare “provvidenziali strapazzate” senza lasciare spiegazioni, saltando sul primo treno disponibile, per risalire e riscendere la penisola. E quel “buco” di giorni corrisponde agli ultimi di Fortis.
Sì, perché l’“accorgimento” al quale aveva accennato Pio X tanto era stato efficace da passare inosservato sotto gli occhi dei massoni, dei giornali, dei parenti di Fortis, e anche dei cattolici. Un capolavoro nel quale solo don Orione poteva riuscire, come ben sapeva papa Sarto.
L’unico cattolico conclamato ammesso senza vigilanza alla stanza del Presidente degente era Enrico Zandotti, medico suo e del papa. Che fece sapere ai massoni che montavano la guardia sul portone che di lì a poco sarebbero venuti degli infermieri di sua fiducia. Che chiaramente furono fatti entrare dai framassoni. Fecero il loro dovere, dopodiché il medico li congedò. Tranne uno: aveva ancora un servizio da prestare.
Era don Orione, travestito da infermiere, complice il papa, il medico; e lo stesso Fortis che aveva consigliato – così pare – lo “stratagemma in articulo mortis”. Per sfuggire alla vigilanza arcigna e volendo spietata di quei “tre puntini” massoni che gli erano stati “fratelli” e amici, taluni parenti, allertati contro «eventuali cedimenti religiosi dell’infermo». Per mesi andò avanti questa immarcescibile guardia. «Sono passato sotto i baffi di quei messeri, che montavano la guardia su per le scale», ammetterà ironicamente don Orione in una lettera.
La lapide commemorativa sulla casa dove abitò Fortis a Roma, prospiciente Palazzo Grazioli, magione di un suo futuro successore, Berlusconi
Racconterà don Orlandi:
«Quell’infermiere, poco alla volta, andava risuscitando quell’anima – mentre il corpo andava in sfacelo – con somma tranquillità e gioia della personalità politica. E più volte, sotto il camice bianco, portò all’uomo politico il farmaco di immortalità e l’antidoto della morte, come chiama l’Eucarestia S. Ignazio Martire».
E già, solo adesso cominciano a diventare significativi sia il glissare o “garbatamente” schivare di Fortis le offerte di “conforti” da parte dei più svariati religiosi amici; sia le guardinghe parole rivolte alla figlia che gli leggeva una di quelle lettere, e riportate dal Giornale d’Italia: «Io sono in pari con Dio e con gli uomini. Ho, figlia, la coscienza tranquilla. Muoio tranquillo».
“Se ci fu morte cristiana, fu la sua”, dirà il medico di Fortis.
Confiderà don Orione: «Molto spesso, si crede che gli uomini della politica siano morti lontani dalla Chiesa e dai sacramenti, mentre spesso, in privato e di nascosto dal gran pubblico, si sono riconciliati con la Chiesa e con Dio».
Ma quei funerali… laici per dire il meno, e di fatto massonici e antireligiosi? Pure in quei giorni, stranamente, risulta che don Orione mancasse da Messina. Ma preti non ce n’erano alle esequie e non potevano.
Ed è sempre lui a rivelare l’arcano, in una lettera: « Al suo funerale, in mezzo a quello spiegamento di labari e di triangoli, presso la bara, per un momento ci fui anch’io, poi era opportuno che scomparissi e scomparvi». Come “infermiere”, ufficialmente, ma dell’anima, segretamente.
Submissa voce recitava le parole della liturgia dei morti: «“Non entrare in giudizio col tuo servo, Signore”, perché il giudizio di assoluzione lo ha già dato il tuo ministro a nome tuo e fu giudizio di misericordia». E mentre il Gran Maestro ammirava compiaciuto come l’empietà avesse fin lì rumorosamente trionfato, in realtà il vero definitivo trionfo lo riportava la pietà, silenzioso e nascosto. Come fu la resurrezione del solo Vero Maestro.
GIOVANNI GIOLITTI
IL LIBERALE CHE NON SI PORTÒ NELLA TOMBA ALCUN “MISTERO” SULLA SUA FEDE
GIOVANNI GIOLITTI. BUSTO DI PIETRO CANONICA
Mentre era già in fase preagonica e fuori c’era tempesta, dentro la stanza da letto ronzava una molesta mosca. La domestica spazientita socchiuse una finestra per farla uscire. Giolitti alzò la testa dal cuscino, stranito. “Presidente, è per la mosca”, si giustificò la donna. Con quegli improvvisi moti di pietà che gli erano tipici, il Presidente stancamente ordinò: «Chiudi e lasciala dentro, povera bestia: fuori piove!»
Qualcosa si era saputo, sicché da allora in poi la parola d’ordine doveva almeno essere “un mistero”, la sua fede. Il mistero “che si è portato nella tomba”, ripeterono imperterriti sino all’altro ieri due giornalisti e storici, Montanelli e Spadolini, quest’ultimo, studioso dei rapporti tra Stato e Chiesa nel Risorgimento, biografo di Giolitti, curiosamente destinato ad essere uno dei successori come primo ministro. All’incirca la medesima parola d’ordine che Spadolini dovette dare per la sua stessa dipartita, nel 1994, lui a lungo segretario del partito più massonico d’Italia, il PRI: “si porta nella tomba il mistero della sua fede”. E a molti sembrarono una stravaganza, addirittura un abuso quei solenni funerali cattolici con tanto di cardinale amico a celebrare. Una voce sussurrò tempo dopo che “il mistero deve restar tale, ma il presidente Spadolini morì coi sacramenti”.
Il “gigante” di Dronero, alto e ieratico come sempre, bellissimo vecchio, fa il suo ultimo ingresso alla camera, ormai dominata dai fascisti. Con estremo contegno, si ritirò a vita privata, attendendo paziente la morte
Uno così, che tanto aveva studiato e amato la figura di Giolitti, mai immaginando di doverne ereditare anche la poltrona, non poteva non sapere quel dettaglio sulla morte del suo beniamino e predecessore. Se lo ha emulato sino a tal punto. Ma chissà perché volle ignorarlo: aveva scritto Giolitti e i cattolici ma forse sarebbe stata onesta una postfazione sul Giolitti cattolico.
La prova ce la fornisce proprio il maggiore studioso di Giolitti e anche della massoneria, lo storico torinese Aldo Mola.
Giolitti moribondo, si legge, “quando ormai stava accettando l’idea di morire”, lui che come “unica malattia aveva quella del non volere estranei in casa” e semmai il “tedium vitae”, ricevette però la visita del teologo Filippi. Ecco. Vediamo che succede.
Il presidente Giolitti non parlò mai della sua fede, tant’è che fin qui non sapevamo davvero cosa credesse, semmai credesse qualcosa.
Anticlericale si dice… certo, non era difficile esserlo all’epoca, e facilitava molte cose l’esibirlo. Ma questo non è segno di incredulità, anzi, il clericalismo può talora esserlo. Giolitti, in realtà, non era nemmeno anticlericale: semplicemente il clero era un ambiente estraneo al suo mondo, e poco lo interessava; se fece qualcosa pro o contro il mondo cattolico, sul piano pubblico, lo fece non per pregiudizio ma per mero calcolo politico, tattica spicciola per salvaguardare la sua politica e gli equilibri liberali… sovente con effettivo vantaggio per i soli cattolici più che per se stesso, vedi, infatti, che appena allargò il diritto di voto e i cattolici furono liberati dal non expedit e si candidarono, iniziò il crollo di quel mondo e la fine dello stesso Giolitti.
Ritroso nel posare, l’ultimo ritratto di Giolitti, ormai 87enne
Ma dicevamo della sua fede. Probabilmente per quel – presumiamo – poco che conosceva del Dio cattolico, certamente si considerava cattolico, ed era anche uno dei pochissimi notabili liberali e primi ministri a non provenire dalla massoneria: alle Logge preferiva discretamente i bordelli di lusso, con tanto di puntuali contratti di prestazione, dove erano stabiliti giorni, ora, totale di minuti, nome della favorita e compenso per la prestazione d’opera; e del resto la sua bellezza, il fascino almeno, l’imponenza fisica anomala per quelli e persino questi tempi, glielo permettevano e lo rendevano adatto a questi extra amatorii… ma non ebbe mai amanti, come invece i suoi colleghi sempre ne ebbero ed era costume e quasi dovere per il notabilato dell’epoca. In ogni caso, compiuti i doveri procreativi, come usava all’epoca liberò la giunonica moglie Rosa “dal peso” della sua colossale persona.
Eppure Giolitti morì cattolicamente, già!, con tutti i sacramenti. Un giorno di luglio del 1928, alla veneranda età di 88 anni, sebbene fosse ancora vigoroso, si mise a letto ed ebbe la certezza che non vi si sarebbe più alzato. Chiamò il prete succitato. Accolse con gratitudine la benedizione del papa Pio XI, baciò reiteratamente il crocefisso, ricevette devotamente il viatico, disse “offro tutte le sofferenze a Gesù”… anche se ben poche erano le sofferenze, lui che non aveva mai avuto alcuna malattia, nemmeno adesso che moriva di vecchiezza. Il teologo gesuita, congedandosi disse «e ora sia fatta la volontà di Dio», Giolitti mormorò in dialetto cuneese «ma non troppo presto».
La tomba della famiglia Giolitti-Plochiù a Cavour
Questo in morte. Ma di uno così davvero in vita “non si seppe mai” della sua fede? In realtà l’esibizione di pietà fu una prerogativa dei democristiani repubblicani, e nemmeno troppo sincera. Quanto a Giolitti, era solo discrezione, del resto sempre ebbe magno pudore dei suoi sentimenti (ecco perché non voleva estranei in casa). È sempre Mola a far luce definitiva: «Fu cattolico praticante, ma senza ostentazione. Ai nipotini donava libri di devozione firmandosi “Gio.Giolitti”. Era osservante come Cavour, Manzoni e un lungo eccetera di uomini della Terza Italia inclusi il massone Crispi e lo stesso Zanardelli, difensore di fiducia di una miriade di congregazioni religiose. La quasi totalità dei massoni e degli anticlericali militanti dell’Otto-Novecento ebbero funerali religiosi. Quelli civili (alla Garibaldi o alla Carducci) furono esigua minoranza», e anche Carducci in realtà si convertì in articulo mortis.
Racconterà anni dopo il nipote Antonio Giolitti: «Andammo, nella casa di Cavour. Lui giaceva su un grande letto di ferro, ci benedisse».
Bene, nella tomba non si portò alcun mistero sulla sua fede, dunque. Semmai qualche resistenza la mostrò nell’arrendersi all’idea di incontrare Dio di persona prima di quanto fosse necessario. Il rapporto “a distanza” gli pareva preferibile. Ma quel rapporto, neppure troppo “distante”, durò per tutta la sua vita.
*Per gentile concessione de L'Editoriale di Monaco, sul quale è apparsa la versione completa
La gnosi contemporanea nella Chiesa: derive e naufragi del pensiero cattolico fra muri da abbattere e ponti verso il processo di secolarizzazione. Gesuitismo, liberalismo, psicoanalisi: i tre volti della gnosi. E qualche altro dettaglio
Un colloquio con
don Ennio Innocenti
a cura di Marco Sambruna
Don Ennio c’è molta confusione circa il concetto di “gnosi”. Quasi sempre è connotata negativamente in ambito cattolico, ma occorre fare chiarezza: tu distingui la gnosi pura dalla gnosi spuria. Puoi spiegarci la differenza?
È vero che l’uso prevalente, in ambito cattolico, è di significato negativo, ma è giusto riconoscergli anche un significato positivo, quando la conoscenza (gnosi) è rivolta al mistero di Dio Trascendente e libero Creatore con la consapevolezza che l’accesso possibile a tale mistero è solo con la benevolenza (grazia) divina, come Gesù ha sottolineato: Io sono la porta, nessuno va al Padre se non per me. La gnosi pura è mistica, ma la mistica è segretamente accessibile a tutti, è una vita spirituale che cresce in collaborazione tra libertà e grazia.
BALTHASAR: LE DEBOLEZZE DELLE BUONE INTENZIONI
La gnosi spuria contemporanea è presente in ambito cattolico anche fra personaggi di grande notorietà come De Lubac, Maritain, Rahner, Von Balthasar, Del Noce. Cominciamo da De Lubac, sospettato di modernismo ed esagerato estimatore dell’umanesimo rinascimentale. Secondo vari osservatori l’influenza del teologo francese al Concilio è stata decisiva.
De Lubac, con altri gesuiti, era in contatto con un centro lovaniense che intendeva conciliare il tomismo col trascendentalismo. La sua apologia del cabalista Pico della Mirandola è in realtà la difesa di se stesso e di quelle tesi per le quali egli fu sospettato e anche seriamente accusato dai suoi superiori. Quanto alla sua influenza in Concilio, essa è solo mediata, non diretta, in quanto egli faceva parte, insieme a Rahner, della ampia Commissione Teologica, la quale filtrava i documenti da presentare alla decisione dell’Assemblea Conciliare. Bisognerebbe studiare i verbali di quella Commissione e ben pochi ne hanno avuto accesso.
Per calibrare la personalità e ridimensionare il valore di De Lubac basta leggere la sua “Memoria intorno alle mie opere” edito da Jaca Book nel 1992. La difesa che Balthasar fece di De Lubac nel 1978 (Jaca Book) non è meno compromettente.
Don Ennio, tu scrivi che Von Balthasar, sembra dedicarsi all’impresa di “aprire al nemico” e tessere l’elogio di ciò che non è cattolico. Egli infatti afferma di proporsi di “demolire gli artificiosi muri d’angoscia che la Chiesa aveva innalzato intorno a sé contro il mondo” e di abbattere i bastioni di “una Chiesa che si deve aprire indifesa verso il mondo”. Tutto ciò che non è cattolico, scrive il teologo svizzero, esiste per ricordare alla Chiesa ciò che ancora deve essere incluso. In base a questo postulato non c’è il rischio di integrare nel cattolicesimo ciò che con esso non è conciliabile come il marxismo, il darwinismo o il freudismo?
L’ex gesuita Balthasar, proveniente da studi di storia letteraria, era influenzato dal filotrascendentalismo che aveva coinvolto anche De Lubac e Teilhard. Gli errori moderni che tu nomini hanno tutti la stessa matrice: il razionalismo che si incrocia con il trascendentalismo da cui provengono sia il filone positivista sia quello idealista e poi esistenzialista. Le buone intenzioni di Balthasar vanno vagliate nelle sue voluminose opere (ciò che io ho fatto nel mio lavoro “La gnosi spuria”) indicandone le debolezze.
RAHNER ERA UNO GNOSTICO
Karl Rahner, gesuita
Karl Rahner ha elaborato l’idea dell’identità cristiana fondata su coscienza ed esperienza, cioè la cosiddetta “svolta antropologica”. Quali sono le sue fonti?
Anche Rahner faceva parte del circolo filotrascendentalista. Anche lui, come De Lubac e Balthasar, non veniva da studi teologici. I superiori l’avevano destinato alla filosofia e per questo egli incrociò Heidegger, da Rahner esaltato come il suo “unico maestro”. Ma anche Heidegger era sotto ipoteca trascendentalista.
Messosi, poi, a scrivere di Teologia, suscitando immediatamente serie riserve da parte dei suoi superiori, vi riversò il suo soggettivismo filosofico. Egli entrò nella Commissione teologica del Concilio senza speciali meriti teologici e Ratzinger se ne accorse solo dopo che fu respinto un lavoro che aveva redatto insieme a lui.
Affermi che la gnosi rahneriana sembra consistere nell’attingere la scienza di Dio non più dalla trascendenza soprannaturale e dalla rivelazione, ma dalla vitalità della storia: possiamo concludere che la conseguenza più importante di questa dinamica sembra essere la desacralizzazione e la dissacrazione del sacro? Deriva da ciò una certa socializzazione della religione?
Sì, Rahner è uno gnostico come il suo vantato “unico maestro”. La deriva storicista, sociologista e politica fu manifesta nei suoi prediletti discepoli che ebbero peso nella teologia della liberazione, poi bloccata da Ratzinger.
Il “pesciolino rosso”, Luise Rinsen, l’amante del gesuita Rahner
Don Ennio ne “Influssi gnostici nella chiesa d’oggi” riporti brani dell’epistolario fra Karl Rahner e la sua discepola e devota Luise Rinser; quest’ultima così scrive al suo mentore nel maggio 1965: “Sai qual è la maggior difficoltà che mi viene da parte tua? Che tu sei un “relativista”. Da quando ho imparato a pensare come te, non oso più affermare nulla con sicurezza.(…) Sento che tu mi togli il terreno sotto i piedi”. Questa destabilizzazione del pensiero è alla base delle incertezze e dei dubbi di fede già denunciati da Paolo VI?
Luise Rinser è stata l’amante di Karl Rahner come prova il suo epistolario. L’accusa che gli rivolge la Rinser è la stessa che gli rivolse, per ordine di Ratzinger, il Padre Ols O.P. dalla prima pagina dell’Osservatore Romano.
METAFISICA ERRONEA DEI GESUITI E GNOSI SPURIA DEI CATTO-LIBERALI
Jacques Maritain
Nella tua imponente opera sulla storia della gnosi indichi come fattore decisivo della penetrazione gnostica nel pensiero cattolico la sostituzione della teologia tomista con l’antropologia trascendentalistica, il situazionismo gesuitico e l’adozione di categorie psicanalitiche. In particolare affermi che la “svolta antropologica” della teologia risente di chiari condizionamenti gesuitici. Puoi approfondire questo aspetto?
Questo è un discorso troppo complesso per una intervista. Bisognerebbe partire dal molinismo e dal suarezismo per analizzare il cedimento gesuitico al cartesianesimo e poi al trascendentalismo. Tutta questa linea è già stata studiata, ma forse sarebbe utile un libro “ad hoc”.
Io mi accorsi che la metafisica gesuitica era erronea, non tomista, quand’ero studente, e mi confrontai per questo con Garrigou-Lagrange che mi confortò pienamente. Poi ritrovai le tesi di Garrigou-Lagrange in Fabro, il quale è uno degli autori che identificò la linea erronea dei gesuiti, ma tardi, quando i gesuiti erano già in pieno marasma e perdettero quasi la metà dei loro “militi”.
Scrivi che anche Maritain non seppe sottrarsi a un certo secolarismo laicista. La sua idea di “umanesimo integrale” è alla base dell’impegno politico dei cattolici del dopoguerra, ma ha anche provocato la permuta del magistero col pensiero liberale. In che modo il catto-liberismo può considerarsi una forma di gnosi?
Il liberalismo è gnosi spuria perché le sue radici sono nel soggettivismo moderno (inglese, francese e tedesco). Il cedimento dei cattolici al liberalismo è già evidente nell’800.
Maritain proveniva da matrice protestante e atea, era un frequentatore di rivoluzionari. Poi si convertì e divenne maurrassiano. Ma se ne staccò e passò alla sinistra progressista che valutava positivamente la rivoluzione francese e anche quella comunista di cui sperava un recupero (proprio mentre era in atto la persecuzione spagnola). Al momento opportuno cambiò aria e andò in USA donde venne con un giudizio positivo della democrazia dei vincitori, che è liberale. L’assoluta perversità del liberalismo è dimostrata da Leone XIII nell’enciclica “Libertas”. I democristiani non ne tennero conto e, contro l’avvertimento di Pio XII, si consegnarono progressivamente ai liberali, finché De Mita, segretario Dc, proclamò spudoratamente il liberalismo della Dc.
Antonio Rosmini
Uno degli aspetti più sottili e insidiosi della gnosi contemporanea è l’ontologismo tra i cui seguaci ci sono stati cattolici di indubbio spessore come Rosmini e Del Noce: puoi spiegare in termini semplici in cosa consiste e perché presenta inserzioni gnostiche?
L’ontologismo malebranciano fu espressamente condannato dal Magistero.
Esso era una imprudente derivazione del razionalismo del rosacrociano Cartesio. Era una gnosi spuria che non salvava la trascendenza. Del Noce non seppe tener conto di questo avvertimento e perciò giudicò positivamente anche l’ontologismo di Gioberti, anch’esso irrimediabilmente condannato. Ma quanto a Rosmini, è indubitabile che costui avesse fatto una esatta diagnosi dell’intera linea che va da Cartesio a Hegel, cercando anche di trattenere Gioberti. Pur essendo amico personale di liberali, Rosmini era certamente esatto nella diagnosi dell’errore radicale del liberalismo.
Il suo ontologismo parve equivoco, ma Pio IX lo difese e lo assolse. Dopo la morte di Rosmini l’equivoco riemerse a causa di scritti suoi precedentemente non pubblicati. Il Magistero mise in guardia contro questi equivoci. Solo in epoca recente l’equivoco è stato dissolto. Secondo il mio personale parere solo Ottonello è stato capace di mostrare soddisfacentemente limpidezza e merito del tentativo di Rosmini.
Ma Del Noce accreditava Rosmini mentre ancora era sotto sospetto e non sarebbe stato capace di rivendicarne la purezza perché non era un metafisico, ma piuttosto uno storico, acuto peraltro nel disvelare genesi e connessioni del pensiero filosofico sia idealista sia marxista. Politicamente ondeggiò dal filosinistrismo giovanile al filodemocraticismo della vecchiezza.
Finì i suoi giorni tutto concentrato sul sessualismo contemporaneo (la cui radice è gnostica, per la mediazione di De Sade).
È LA VERITÀ CHE ANNIENTA L’ASSURDO
Alcuni psichiatri sedicenti cattolici utilizzano la psichiatria come mezzo per interpretare fenomeni soprannaturali o insoliti; tuttavia questa modalità spesso ha il fine di “medicalizzare” chi sperimenta fenomeni mistici e di attribuire significati simbolici ad alcuni episodi evangelici. Com’è possibile che una pseudoscienza come la psichiatria possa godere di tanto credito presso la comunità scientifica o addirittura in alcuni settori della Chiesa?
Vuoi scherzare? La psichiatria è una scienza come la fisiologia e la genetica. Purtroppo è vero che molti psichiatri si son lasciati influenzare dalla moda psicoanalitica. La psicoanalisi non ha niente della scienza, perfino quella freudiana, sebbene Freud fosse un neurologo che proveniva dalla scienza positivista. Ma Freud era anche un cabalista, ideologo, drogato… ecc. Peggio di lui fu Jung. Il mio libro “Critica alla psicoanalisi” è stato presentato in Roma, in sesta edizione, dal Presidente degli psichiatri cattolici, uomo di sicura scienza e sicura dottrina e fede cattolica.
Purtroppo vari ambienti ecclesiastici hanno aperto alla psicoanalisi accreditandola perfino nei seminari. Di qui il disastro clericale noto. Quanto al Vangelo non c’è divieto di vedervi anche dei simboli, ma non è permesso ridurre i fatti storici verificati da testimoni oculari a meri simboli.
Dalì, il Cristo di San Giovanni della Croce. Che congiunge cielo e terra col suo corpo: un fatto non un simbolo.
Don Ennio, la Chiesa cattolica sembra avere decisamente imboccato la via del declino: la fede è sempre più ridotta a simbolo o, come sosteneva Nietzsche, a un residuo emozionale progressivamente sospinto nei recessi dell’inconscio.
Il cardinale Ratzinger in una celebre intervista ha dichiarato che i cristiani del futuro costituiranno una sparutissima minoranza, Paolo VI si domandava se non fosse prossima la fine e Giovanni Paolo II ha parlato a più riprese di “umanità al bivio”; infine Francesco ha recentemente stipulato una sorta di alleanza col patriarca di Mosca Kirill forse con l’obiettivo di erigere una barriera contro il dilagare del laicismo militante e dell’islamismo. Che cosa è lecito attendersi in un prossimo futuro ? È ragionevole ritenere che il peggio è alle nostre spalle o siamo solo all’inizio della via crucis?
La Chiesa Cattolica è stata sempre nella tempesta ma il Risorto è presente, questa presenza è garanzia migliore di ogni alleanza temporale. È lecito attendersi dal futuro un grande crollo dell’intera civiltà liberale, ma non un naufragio completo della Chiesa perché la missione apostolica deve arrivare all’intera umanità. Credo anch’io che ci attendano durissime prove, ma non dubito mai che la presenza maligna verrà sconfitta.
Adesso ho saputo che la Corte Suprema Canadese ha dichiarato lecito il rapporto sessuale umano con le bestie! Sono coerenti, ma autodistruttivi.
L’Apocalisse avverte che il Logos Vincitore annienta i suoi nemici con la spada che gli esce dalla bocca: è la verità che annienta l’assurdo. L’assurdo svelato è annientato.
FINE
* Nota biografica
Don Ennio Innocenti (Pistoia, 1932).
Studia a Roma al Collegio Capranica, poi alla Pontificia Università Gregoriana dove ottiene il baccellierato in filosofia, poi consegue il dottorato in Sacra Teologia alla Pontificia Università Lateranense.
È ordinato sacerdote per la Diocesi di Roma il 20 gennaio 1957.
Docente di teologia fondamentale ed ecumenismo (per tre anni è stato il primo segretario della Commissione Ecumenica del Vicariato di Roma), insegna filosofia sistematica e filosofia contemporanea all’Istituto teologico Don Orione, affiliato alla Pontificia Università Lateranense.
Conduce per ventisette anni “Ascolta si fa sera”, celebre trasmissione radiofonica della Rai. I testi delle trasmissioni, tutti elaborati da lui, sono stati raccolti in una grande opera divisa in dieci volumi: Il pensiero della sera, vincitrice del Premio letterario nazionale “Nazareno” (1981).
Dopo essere stato diretto collaboratore di P. Raimondo Spiazzi O.P. nell’ufficio teologico del Comitato centrale del Giubileo del 1974-75 e dopo aver lasciato la lunga collaborazione con il Centro Diocesano di Teologia del Vicariato di Roma come docente titolare di Dottrina Sociale della Chiesa, assume, nel 1984, il commissariamento della Venerabile Arciconfraternita di Santa Maria degli Angeli dei Cocchieri di Roma (Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis), che diverrà di fatto anche la casa editrice. Con la ‘Fraternitas’ pubblicherà più di cento edizioni su temi di apologetica, estetica, etica, filosofia, mistica, teologia, storia.
Nel 2004 il Sindacato libero degli Scrittori Italiani (SLSI) organizza un convegno di studi sull’opera di Ennio Innocenti (Cfr. Don Ennio Innocenti. La figura, l’opera, la milizia. Atti del Convegno di studi “La croce e la spada”. Sindacato libero scrittori italiani, Roma, 23 - 24 aprile 2004, Bibliotheca Edizioni, Roma, 2004).
Dal 1984 è componente del Presbiterio della Basilica di San Pietro in Vaticano.
Fra i tanti volumi sull’argomento di questa intervista segnaliamo:
La gnosi tra luci e ombre. Atti del secondo convegno di studi sull’opera di Ennio Innocenti, S.F.A.U., Roma (2010).
Critica alla psicoanalisi, S.F.A.U., Roma (2011).
Influssi gnostici nella Chiesa d’oggi, S.F.A.U., Roma (2012).
Continuità della gnosi nella modernità. Atti del terzo convegno di studi sull’opera di Ennio Innocenti, S.F.A.U., Roma (2012).
Rivelazione e Storia. Atti del convegno, S.F.A.U., Roma (2014).
La Gnosi Spuria, 2 voll., Città ideale, Roma (2013)
La Gnosi dei Perfetti nell’Arte e nell’Estetica, S.F.A.U., Roma (in fase di stampa).
Il credente laico o consacrato oggi deve scegliere fra tre alternative:
custodire nell’occultamento la propria fede per salvaguardarla dagli occhiuti sguardi mondani a prezzo dell’isolamento;
esporre la propria fede per uscire dall’isolamento a prezzo della derisione;
custodire nell’occultamento la propria fede e contemporaneamente offrire al pubblico una versione laicista ossia artefatta di se stesso a costo della scissione schizoide foriera di nevrosi.
di Marco Sambruna
Alcuni psicoterapeuti di orientamento esistenzialista, hanno condotto importanti studi sulla nevrosi schizoide. Qui a noi interessa un aspetto particolare di tali studi, cioè la necessità, per una buona salute mentale, di due requisiti:
essere consapevoli di se stessi come aspetto legato alla percezione dell’io
essere consapevoli di sé come oggetto di osservazione di un’altra persona.
SCHIZOFRENIA
E’ il secondo requisito quello che importa di più in questa sede, perché, dal punto di vista della moderna psicologia, non si può avere una personalità solida se l’immagine che si ha di se stessi non risulta anche dall’opinione che altri ne hanno: in pratica occorre che percezione di sé e dati provenienti dal campo fenomenico (realtà) coincidano. Si può dire allora che esistono dei condizionamenti provenienti dall’esterno, o se si preferisce un opinione collettiva o rumore sociale, indispensabile alla salute dell’individuo.
Senza l’esame dello sguardo altrui c’è il rischio di una spersonalizzazione, di un anonimato percepito che può essere l’origine di disturbi della personalità. Di contro il volersi sottrarre continuamente allo sguardo altrui indica il desiderio di essere invisibili tramite impoverimento delle relazioni sociali, isolamento, conformismo come espediente mimetico per confondersi nella folla e difendersi così dal rischio di essere riconosciuti dall’altro.
Il timore di essere conosciuti implica la paura di essere spossessati della propria personalità, quasi si fosse vittima di un furto. Ma d’altra parte poiché questo timore spesso fonda un eccessivo isolamento con conseguente deficit di vitalità, ecco che sorge, contraddittoriamente, la necessità di comunicare e quindi di esporsi al pubblico riconoscimento e quindi alla pubblica valutazione.
Ma tornare a comunicare, seppure per un breve periodo allo scopo di assicurarsi “una boccata di ossigeno”, implica sempre la necessità di essere riconosciuti dall’altro e di patire quindi la sindrome da spossesso di cui sopra.
Non resta allora che una terza via: intrattenere relazioni con gli altri dicendo o facendo trapelare di sé il meno possibile cioè lasciando che il proprio corpo agisca (io corporeo o falso io) mentre la propria mente (io incorporeo o vero io) si limita a contemplare da una certa distanza, come uno spettatore osserva una rappresentazione teatrale sul palcoscenico. E’ chiaro che il proprio rapportarsi con altri non è altro che una finzione, un misero modo per intrattenere un minimo di relazioni sociali tentando al contempo disperatamente di restare occulti nella propria autenticità.
Più in generale a partire dal mancato riconoscimento della propria autenticità, il soggetto sviluppa una personalità fragile cioè apparentemente docile e mite, completamente disponibile a fare o essere ciò che gli viene chiesto di fare o essere pur di ottenere un minimo di riconoscimento da parte degli altri che lo circondano: nasce così, sul fondamento dei condizionamenti familiari, la scissione nevrotica tipica della personalità schizoide fra falso io (corporeo) da mostrare in pubblico e vero io (incorporeo) da occultare il più possibile. Questa doppia natura è traducibile nei termini di scissione fra esistenza inautentica da presentare agli altri conformemente all’idea (inautentica) che costoro hanno del soggetto ed esistenza autentica da custodire o velare accuratamente.
Ma esiste anche il fenomeno opposto di un riconoscimento fondato su un’idea preconcetta e quindi inautentica elaborata aprioristicamente in base alla quale classificare l’individuo eludendo l’autenticità che traspare dal soggetto. In questo caso i tentativi di manipolazione sorgono inevitabili allo scopo di modellare la personalità, ad esempio, del bambino sulla base di ciò che dovrebbe essere per i genitori o dell’adulto sulla base di ciò che deve essere per la corrente di pensiero dominante.
Esiste quindi un riconoscimento autentico fondato sulla percezione dell’autentica personalità del soggetto e uno pseudo riconoscimento inautentico fondato sull’idea preconcetta che si ha del soggetto o sull’immagine pubblica falsificata che l’individuo offre di se.
Il riconoscimento inautentico peraltro equivale al mancato riconoscimento tout court.
IL SACRO A RISCHIO
Qualcosa di simile accade a una parte dei cristiani e del clero contemporaneo: devono scegliere fra custodire e occultare la propria fede col rischio dell’isolamento o proclamarla a chiare lettere col rischio di essere derisi o compatiti.
O i cristiani custodiscono il sacro per ripararlo dalle intrusioni profananti del cosiddetto “mondo” senza poterlo divulgare o lo espongono nell’agorà del rumore sociale collettivo al fine di testimoniarlo compromettendone l’aura di mistero. Nel primo caso il cristiano deve subire l’emarginazione e l’isolamento, nel secondo sottopone la propria fede alla desacralizzazione volta alla deformazione ridicolizzante.
A partire da questo presupposto il credente sia esso laico o membro del clero per sfuggire all’alienazione dell’isolamento o all’umiliazione della derisione adotta una terza via che consiste nell’offrire al pubblico, ossia al nascente uomo nuovo plasmato dalla nuova religione laicista, una sorta di alter ego o di ologramma che rappresenti un’immagine virtuale di se stesso conforme al pensiero dominante al fine di ottenerne riconoscimento e quindi consenso.
Mentre quest’immagine pubblica vive nella quotidianità delle relazioni sociali, nel “retrobottega” della propria coscienza come la chiamava Montaigne, il credente continua a vivere secondo i valori che apprezza più intimamente generalmente legati a una tradizione fatta di devozioni, preghiere, pratiche religiose che il pensiero dominante rigetta.
Egli quindi offre al mondo l’ologramma di un’immagine dotata di io corporeo che corrisponde a una personalità fittizia e quindi inautentica mentre conserva nel proprio intimo l’io incorporeo che corrisponde alla propria personalità autentica: da questa separazione fra io autentico intimamente vissuto e io inautentico pubblicamente manifestato nasce la scissione schizoide che minaccia l’integrità dell’uomo che si sforza di vivere secondo principi religiosi.
MARTIRIO ESISTENZIALE
Ricapitolando il credente laico o consacrato oggi deve scegliere fra tre alternative:
custodire nell’occultamento la propria fede per salvaguardarla dagli occhiuti sguardi mondani a prezzo dell’isolamento;
esporre la propria fede per uscire dall’isolamento a prezzo della derisione;
custodire nell’occultamento la propria fede e contemporaneamente offrire al pubblico una versione laicista ossia artefatta di se stesso a costo della scissione schizoide foriera di nevrosi.
Una scelta di fede coraggiosa senza sì e senza ma imporrebbe di rigettare come menzognera la terza alternativa e di accettare il ruolo scomodo imposto dalla prima o dalla seconda condizione a seconda del carattere e del temperamento personale.
Mentre infatti la prima o la seconda alternativa sono allineate agli insegnamenti tradizionali della chiesa sulla scorta della vita di Cristo, la terza possibilità in quanto inautentica è anche menzognera perché presuppone si sia disposti a barare con se stessi e con gli altri spacciando della propria personalità un’immagine falsificata.
Tuttavia il ventaglio delle possibilità non è ancora esaurito: infatti le tre modalità, a fronte di atteggiamenti antitetici, presentano però una caratteristica comune, cioè la capacità di generare uno stato di sofferenza.
Infatti la custodia e l’esposizione della propria fede impongono la necessità del disagio psicologico (o martirio esistenziale per quanto apparentemente incruento), procurato dall’isolamento sociale o dalla derisione commiserante: in entrambi i casi il cristiano si sente game over.
L’ambivalenza della terza scelta impone invece la necessità della finzione logorante avviando un processo di alienazione psicologica di natura nevrotica a propria volta causa di uno stato di sofferenza che, se prolungato, può degenerare in forme assai gravi di disturbo della personalità.
LA RESA
A questo punto volendo sfuggire al disagio inevitabile implicito in ciascuna delle tre scelte di cui sopra, il credente, spesso senza esserne pienamente consapevole, muta geneticamente se stesso avviando una sorta di processo alchemico regressivo che trasforma l’oro in metallo vile.
Il credente per evadere dal suo stato di alienazione avvia la metamorfosi di se stesso tramutandosi in ciò che il pensiero dominante gli chiede di diventare; egli, riguardo la propria fede, cessa così di custodirla, di testimoniarla, di viverla in modo ambivalente e adotta l’unica trasformazione in grado di emanciparlo dal disagio esistenziale: diventare un uomo nuovo conforme alla nuova religione laicista.
Ciò significa sincronizzare il pensiero e l’azione, cioè, nel nostro caso, convertire la fede ereditata da una lunga tradizione nella moneta corrente del catto-progressismo, ossia una forma di fede ancora socialmente accettata perché analoga, e quindi introduttiva e propedeutica, al relativismo laicista. In questo modo il credente riceve il nulla osta sociale che, in relazione alla propria fede, gli consente di liberarsi dall’isolamento che derivava dalla custodia, dalla derisione che derivava dalla testimonianza e dalla scissione nevrotica che derivava dall’ambivalenza.
IL CATTOLICESIMO DISINNESCATO: QUELLO LIBERAL
Introiettata e acquisita la nuova fede catto-liberale come dimensione pre-laicista al cristiano è infine concesso di decomprimersi: egli può finalmente manifestare apertamente il suo cristianesimo depotenziato senza incorrere nella riprovazione sociale e nelle sue conseguenze escludenti, derisorie e alienanti. Il credente così riconfigurato riceve la convalida da parte del relativismo laicista dominante perché quest’ultimo, da un cristianesimo impoverito ossia disinnescato e incapace di operare qualsiasi tipo di eversione, non ha più nulla da temere.
La cultura laicista infatti è disposta a tollerare il credente solo se questi è inoffensivo e lo riabilita solo se costui divulga, in luogo delle credenze religiose custodite dalla Chiesa così come si sono storicamente consolidate, l’evanescenza truffaldina di una serie di innocui ologrammi largamente condivisi: l’umanitarismo in luogo dell’umanesimo, il dialogo in luogo dell’evangelizzazione, il terzomondismo in luogo delle cooperazione, il sentimentalismo fondato sul pathos invece della religione fondata sull’ethos, la pace universale invece della conflittualità dialettica, etc.
Il catto-progressismo si può dunque considerare come una forma di autoterapia che permette il contenimento del disagio e nel contempo configura un’“area di conforto” all’interno della quale è ancora possibile trovare rifugio vivendo la fede senza essere isolati, derisi o scissi; l’adesione al catto-liberismo infatti fornisce un alibi che concede al credente di continuare ad auto percepirsi come “cristiano” se non cattolico coltivando una versione depauperata della fede originaria, permettendogli al contempo di eludere l’apartheid religioso cui sarebbe sottoposto a causa dell’isolamento, della derisione o della nevrosi frutto della custodia, dell’esposizione, dell’ ambivalenza della propria fede vissuta nelle forme tradizionali.
E’ chiaro che dagli accenni sopra esposti, risultano due conclusioni:
la società moderna, caratterizzata evidentemente da incomunicabilità, è fondamentalmente non solo nevrotica e schizoide, ma anche escludente e discriminatoria nei confronti dei dissidenti ancorati a un sistema di valori tradizionali;
l’individuo che tenta di salvaguardare il suo sistema di credenze congedandosi dalla società, tramite l’isolamento o la finzione di relazioni sociali sincere o che tenta di contrapporsi tramite l’esposizione della propria fede, per l’odierno pensiero laicista, e anche per la psichiatria ortodossa, è da medicalizzare.
Tramite il disagio esistenziale che esso stesso induce, il pensiero unico laicista riesce così, con la collaborazione degli stessi credenti, a scoraggiare il pensiero e la pratica religiosa tradizionale che da sempre valuta la lotta contro il processo di secolarizzazione non solo come auspicabile, ma addirittura come necessaria.
Il credente sa che solo aderendo a una versione depotenziata della fede, il progressismo cattolico, potrà ricevere l’assoluzione laicista e recuperare credibilità sociale.
ALBERT CAMUS
Nel nostro discorso abbiamo indicato il mancato riconoscimento sociale come origine del cammino regressivo che porta il cristiano da una condizione di fede autenticamente vissuta a una di “conversione” laicista per il tramite di una fase intermedia catto progressista.
Il tema tipicamente esistenzialista del mancato riconoscimento è il cardine del capolavoro di Albert Camus “Lo Straniero”. Il titolo allude alla condizione straniante o alienata dell’uomo contemporaneo specialmente di chi, come il protagonista del romanzo, si sente estraneo rispetto alla realtà circostante percepita come ostile e che riconosce solo in termini di assurdità e da cui è riconosciuto in modo inautentico solo in termini di devianza sociale.
“Lo Straniero” del romanzo è quindi considerato con sospetto perché è riconosciuto solo come elemento potenzialmente eversivo.
La condizione eversiva di esiliati dall’esistenza, secondo la metafisica esistenzialista, è tipica degli outsiders non allineati, diremmo oggi, al pensiero unico relativista; tra i non allineati privi di riconoscimento sociale ci sono talvolta gli uomini di fede i quali sono spesso indotti a rifugiarsi in una delle tre strategie di sopravvivenza sopra indicate, peraltro, ingestibili psicologicamente se troppo prolungate essendo fonte di diverse forme di disagio.
Infatti per i credenti l’assenza di riconoscimento da parte dell’altro da situazione patogena saltuaria sta diventando una condizione abituale che impone, sempre più frequentemente, la scelta drammatica fra l’essere isolati nel caso di una fede vissuta intimamente, derisi nel caso di una fede testimoniante, o scissi nel caso di una fede vissuta intimamente e di un atteggiamento secolarizzato da ostentare in pubblico.
La scelta privilegiata riguarda spesso la prima opzione, cioè la scelta di emarginarsi auto esiliandosi dal contesto sociale: è il fenomeno che il rumore sociale laicista scaltramente incentiva qualificandolo come necessità della “riduzione della religione a fatto privato” con l’apparente pretesto di non urtare la sensibilità di chi non crede o partecipa ad altre religioni. Sembrerebbe una posizione ragionevole e tollerante mentre invece prelude all’apartheid e alla lagerizzazione delle fede che diventa così inconfessabile, incomunicabile e ridotta a languire compressa nei recessi dell’ES.
IL RICONOSCIMENTO COME SALVEZZA
La fenomenologia dell’isolamento psicologico e dello stato d’animo che ne deriva è stata descritta con efficacia specialmente da letterati e filosofi della corrente esistenzialista quando, ad esempio in circostanze particolari della vita sia pure per un breve periodo, il riconoscimento dell’altro viene a mancare e si cade allora in una forma di destabilizzazione psicologica caratterizzata da isolamento solipsistico, monologante e ruminativo.
Si verifica una sorta di “vuoto” interiore o una morte nell’anima come il significativo titolo di un celebre racconto di Albert Camus[1]. La narrazione ha carattere autobiografico: lo scrittore si reca a Praga dove soggiornerà meno di una settimana da solo in attesa di essere raggiunto da un gruppo di amici.
Nel frattempo Camus è costretto a trascorrere alcuni giorni con pochi soldi, senza conoscere la lingua locale e, soprattutto, in solitudine e privo quindi del riconoscimento altrui.
Ricavando dati dalla propria auto percezione egli annota il suo stato d’animo.
Avevo poco denaro. Abbastanza per vivere sei giorni. Dopo i quali sarebbero arrivati degli amici. E tuttavia mi preoccupai anche di questo. Mi misi dunque a cercare un albergo modesto. Ero nella città nuova, e tutti quelli che mi venivano sott’occhio brillavano di luci, di risa, di donne. Camminai più in fretta. Con qualcosa nel mio correre precipitoso che assomigliava già a una fuga. [ … ]
Il problema del denaro diventa spinoso. Ormai solo da povero posso vivere in questa grande città. Si precisa l’inquietudine, poco fa ancora indifferenziata. Mi sento a disagio. Sono vuoto. Però un momento di lucidità: mi hanno sempre attribuito, a torto o a ragione, la massima indifferenza verso i problemi di denaro. Come si spiega dunque questa stupida apprensione ? [ … ]
Un luogo in cui non mi annoio è un luogo che non mi insegna nulla.
Cercavo di rincuorarmi con frasi come questa.
Ma debbo descrivere i giorni che seguirono? Tornai al solito ristorante. Mezzogiorno e sera, subii l’orrendo cibo al comino che mi stomacava. E per tutto il giorno mi portavo dietro una perpetua voglia di vomitare. Ma non cedetti, sapendo che bisognava nutrirsi. D’altra parte che cos’era a paragone di quel che avrei dovuto subire provando un altro ristorante?
Almeno qui ero “riconosciuto”. Mi sorridevano anche se non mi parlavano. L’angoscia guadagnava terreno […]
Rientrai precipitosamente nella mia stanza […] passai tutto il pomeriggio in uno stato che stenterei a descrivere. Stavo disteso con la testa vuota e uno strano stringimento al cuore. Mi limavo le unghie. Contavo le scanalature sul pavimento di legno “ Se riesco a contare fino a mille…”. A cinquanta o sessanta crollava tutto. […] Da alcuni giorni non avevo pronunciato una parola e il cuore mi scoppiava di grida e di rivolte contenute. Avrei pianto come un bambino se qualcuno mi avesse aperto le braccia. Verso la fine del pomeriggio, rotto di fatica, fissavo sperduto il chiavistello della porta, con la testa vuota, ripetendo un’aria popolare di fisarmonica […] Bussarono alla porta ed entrarono i miei amici. Ero salvo anche se venivo privato di qualcosa. Credo proprio di aver detto “Sono contento di rivedervi”. Ma sono sicuro che le mie confessioni si sono fermate qui e io sono rimasto ai loro occhi l’uomo che avevano lasciato.
Il titolo del racconto è appunto “La morte nell’anima” e non “la morte dell’anima” che indicherebbe ben altra conclusione; il primo titolo suggerisce la presenza di un agente patogeno, la sensazione di morte appunto, in conflitto con l’anima che minaccia di distruggere.
Nel racconto invece la morte dilegua sconfitta da un agente vitale e risanante: il riconoscimento da parte di altri che riscatta il protagonista dalla morte sociale riammettendolo nel consorzio umano.
Il riconoscimento sembra così costituirsi come una sorta di resurrezione dopo l’agonia della morte.
In un contesto di morte e resurrezione esistenziale si può allora indicare un’analogia, sia pure su un piano diverso, con la vita di Cristo e in particolare con la sua agonia.
Anch’essa infatti pare ricondursi al mancato riconoscimento prima da parte delle autorità giudaiche che lo qualificano come impostore, poi da parte della folla che gli preferisce Barabba, infine da parte dei Dodici che si dileguano mentre Pietro addirittura lo disconosce più volte. Solo le pie donne e Maria continueranno a riconoscerlo per quello che è, cioè il Messia.
Il mancato riconoscimento o l’irriconoscenza quale fonte di angoscia mortale, abbandono, derisione, dubbi su se stessi. Ma anche il riconoscimento e la riconoscenza quale mezzo salvifico per chi ha creduto fino in fondo.
[1] A. Camus, “Il rovescio e il diritto”, pagg 39 – 48, ed. Bompiani
Dalla ribellione a Dio di Lucifero a quella dei nostri giorni: la superbia, desiderio di “essere come Dio, meglio di Dio”, è una tentazione antica. Che ha distrutto oltre che Lucifero, tutti quelli che vi hanno ceduto, da Adamo ed Eva a Babele prima di Cristo; e dopo, da Fozio a Lutero, dai “santi atei” del XX secolo sino ai cantori dei “diritti civili” del XXI, hanno tormentato la Sposa di Cristo, dilaniandone la veste senza strappi, perseguitandone i figli. “Voi sarete come Dio”, purché si assapori il “frutto proibito”, fu la promessa dell’antico serpente ai nostri progenitori. Quella promessa, non mantenuta come tutte le promesse del maligno, ci incanta ancora. Eppure Dio li aveva avvertiti: “Se ne mangerete, ne morirete”. Ma tant’è!
di Danilo Rossi
In una vecchia e poco nota poesia, l’autore così descrive l’immagine di una ragazzina ed un anziano raccolti in preghiera: “Le prime preghiere e le ultime…”. Mentre ragionavo su questa bella immagine mi è venuto in mente: “Non vale forse anche per il peccato?”. Ho cominciato a ragionarci sopra: e più ci ragionavo, più me ne convincevo. Il primo peccato, che introdusse la morte nel mondo e si incarnò nel “mysterium iniquitatis”; il primo peccato, che come un fil rouge si dipana nella storia del mondo e della Chiesa; il primo peccato, che scatena ed origina tutti gli altri sarà anche l’ultimo, che esploderà alla fine dei tempi. Il suo nome è SUPERBIA.
Dio non solo ha fissato la sua legge, ma continuamente parla all’uomo per indicargli la sua volontà. Da ultimo, ha mandato il Figlio che ha istituito la Chiesa, che regge ed ammaestra il popolo di Dio: insomma, come si dice in certe aule di giustizia “non possiamo non sapere”. Eppure il primo peccato è stata la superbia: ribellarsi alla volontà di Dio e decidere da sé.
Dio Onnipotente si rivela al genere umano e ad ogni singolo uomo per mezzo della sua Parola e del suo diletto Figlio. La vita, gli insegnamenti, la Passione e Morte di Gesù Cristo – che è Dio – sono la luce che illumina l’intera economia della legge divina e della salvezza: Egli è Via, Verità e Vita, e “non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (Ap 4, 1). Poi vi sono i precetti: quelli dati da Nostro Signore in primis, ma anche il resto, ovvero la legge rivelata da Dio al genere umano nella storia: a partire dai dieci Comandamenti dati a Mosè sul Sinai sino ai giorni nostri attraverso la Chiesa, sua fedele Sposa, che custodisce ed interpreta questi precetti attraverso i dogmi e le verità di fede. Essi sono stati dati all’uomo per il suo bene su questa terra, e per ottenergli la felicità eterna nella vera Vita promessa da Cristo a chi lo seguirà. Essi sono il regolo morale, etico ed escatologico a cui informare non solo le singole vite degli uomini, ma anche la legge civile degli Stati. Infine, vi è il Suo disegno sopra di noi presi singolarmente: essa è il talvolta misterioso talvolta chiarissimo modo in cui Dio ci parla, ci spiega il suo particolare disegno sulle nostre vite. A volte lo comprendiamo, molto più spesso brancoliamo nel buio cercando di raccapezzarci: ed allora solo la fede in Lui ci può far accettare questa volontà. Anche quando non parla, Dio ci vuol dire qualcosa. E’ il silenzio di Dio, su cui Benedetto XVI ha scritto alcune tra le sue pagine più profonde. Un silenzio che a volte ci sembra un deserto, ed invece è la via nel deserto che porta all’oasi. L’oasi di una sempre maggiore conoscenza nostra e Sua (vedi Benedetto XVI, Udienza Generale del 7 marzo 2012).
L’azione di Dio non può ovviamente ridursi a casistiche: ma possiamo ben dire che chi crede in Lui e nel Suo Figlio Gesù, vero Dio e vero uomo, applica i suoi precetti ed accoglie con umiltà la sua volontà sopra la propria vita, compie il suo primo dovere ed il fine ultimo della sua esistenza: “conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e goderlo nell’altra, in Paradiso”.
Il peccato è proprio questo: rinnegarlo (“chi rinnega me, anch’io lo rinnegherò nell’ultimo giorno”), infrangere i Precetti o ribellarsi alla Sua volontà.
Il primo peccato
La Caduta degli angeli ribelli è un dipinto a olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1562 e conservato nel Museo reale delle belle arti del Belgio di Bruxelles. È firmato “M.D.LXI BRVEGEL”
Primo in almeno due sensi. Lo sappiamo benissimo: i peccati capitali sono sette. Eppure, a mio avviso ce n’è uno “primus inter pares”: la superbia, che consiste nell’anteporre se stessi a Dio. Nel mettere se stessi al primo posto, sì da rendersi pari a Dio. Anzi, anche al di sopra. Quando Gesù nell’orto degli Ulivi disse “Sia fatta la Tua, non la mia volontà”, proprio da questo voleva metterci in guardia: se persino il Figlio di Dio – simile in tutto a noi fuorché nel peccato – è stato tentato di anteporre la propria volontà alla Sua, figuriamoci noi.
Per quanti peccati il cristiano possa commettere, per quante volte possa cadere, egli sa, in fondo alla sua anima, che l’ultima parola deve averla Dio: anche quando questa parola suona amara alle sue orecchie, anche quando questa volontà sembra crudele ai suoi occhi mortali e velati. Egli infatti ha dato dei comandi che non è lecito trasgredire; e quand’anche trasgredisce – e capita a tutti – riconosce da sé di aver sbagliato. E chiede perdono, inginocchiandosi ed implorando misericordia da “quel Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola”. Chi invece decide da sé i precetti e pensa di poter essere padrone assoluto della propria vita, questa esigenza non la sente; vive anzi questi precetti come una castrazione, come un’orribile limitazione alla propria libertà: senza capire che senza la Legge non vi è libertà, ma anarchia.
“Pride”: una parola che oggi ci ricorda molte rivendicazioni, ma che significa soprattutto, e sempre, “Orgoglio” e “Superbia” Pieter Bruegel il vecchio, I sette peccati capitali: Superbia.
Primo anche in un altro senso, quello letterale. Inutile qui ricostruire le varie ipotesi patristiche e teologiche sulla caduta di satana e degli angeli ribelli: chi sostiene il rifiuto di adorare la Creazione divina, chi il rifiuto ad accettare l’Incarnazione di Nostro Signore. Però tutti i Padri della Chiesa sono unanimi nel parlare di superbia: satana, creato da Dio angelo sfolgorante di luce e pieno di ogni virtù, decise di porsi al pari di Dio, anzi al di sopra, valutando da sé cosa fosse giusto e buono e ritenendo quindi irricevibile la divina volontà, che pure era quella del suo stesso Creatore. Si ribellò, ed assieme ai suoi sodali venne cacciato nell’inferno: di qui l’ira verso Dio ed il genere umano, che si ripromise di perdere a Dio; l’invidia verso l’uomo – oggetto della misericordia divina – e degli angeli, la cui condizione anticamente condivideva: e via via tutti gli altri peccati, che scaturiscono come un oceano graveolente dagli abissi infernali per inondare la terra e – ove gli sia concesso – affogare l’intero genere umano: allontanato per l’eternità dalla Fonte di ogni bene, egli non fu più capace del bene ma solo del male. Da allora, egli non cessa mai di incitare l’uomo alla sua medesima ribellione a Dio. Tant’è che lo rivediamo in azione proprio in occasione del primo peccato dell’uomo.
Non si può negare in questo peccato la piena e totale responsabilità dei progenitori. Essi ben sapevano del comando di Dio: “dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”; quindi, pienamente meritata fu la loro e nostra punizione. L’albero in questione non era l’albero “dell’eternità”, “del piacere” et similia: era l’albero della conoscenza del bene e del male: in linguaggio figurato la possibilità di stabilire cosa è bene e cosa è male, che sola è riservata a Dio, come dicemmo all’inizio. E chi ricompare sulla scena ad incitare alla ribellione i nostri progenitori? Proprio lui, l’antico serpente, il vecchio omicida. E cosa sussurra all’orecchio di Eva? “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”.
Un pavone raffigurato accanto a una dama con specchio, in Pieter Bruegel il Vecchio, rappresentazione di vanità e orgoglio che si fanno superbia, nei “7 peccati capitali”. PARTICOLARE
Par di vederla quella sua lingua biforcuta, a blaterare di libertà, di un Dio crudele e geloso, che incatena ai suoi bizzarri voleri il genere umano; par di vederla mulinare bestemmie di superbia e quindi di ribellione: egli ben conosce l’uomo, e come solleticare il suo orgoglio per farlo insuperbire e sfidare Dio. E vinse con le sue bestemmie gli antichi progenitori, e l’uomo cadde e non si è più rialzato: solo il Sacrificio di Cristo ha potuto cancellare quella macchia nel Battesimo, e dare una promessa di salvezza a chi crede in Lui e segue le sue leggi e la sua volontà.
Come promise Dio, dopo quel tremendo pasto venne per l’uomo la morte, ovvero il suo assoggettamento ad essa; incapace di obbedire al suo comando, l’uomo viene provato in questa vita come l’oro nel crogiolo dove può sperimentare la sua ira e la sua misericordia; con la morte cessa il tempo della misericordia ed inizia quello della giustizia: l’uomo torna al suo Creatore per essere giudicato, e fissare nell’eternità la sua scelta di vita o di morte. Non accadde invece quel che promise satana: mai accade, poiché tutto in lui è menzogna, di cui è il padre. I progenitori non diventarono come Dio.
Il primo peccato degli angeli, ed il primo peccato degli uomini fu la superbia, il ritenersi pari a Dio per decidere ciò che è bene e ciò che è male. E non fu l’ultima volta che questo abominio comparve sulla terra.
Il primo di tanti
L’Antico Testamento è pieno di questo peccato: basti pensare alla torre di Babele. Un popolo che decide di diventare Dio: “costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome”. Farsi un nome: questo è il punto centrale del racconto biblico.
Nella Bibbia, solo Dio dà nomi: Adamo ed Eva, ad esempio. E quando concesse ad Adamo di dar nome alle cose create, fu una sua benevola concessione, un atto d’amore e di fiducia nell’uomo. Cambiò il nome di Abràm in Abramo, quando lo fece uscire da Ur verso la terra promessa. Cambiò nome anche alla Santa Vergine, affidandole la missione di divenire il sacro Vaso dove si sarebbe incarnato: nel saluto dell’angelo nella casa di Nazareth, all’inizio la chiamò “kecharitomene”, la “tutta piena di grazia”; solo dopo usò il nome proprio: “non temere, Maria”. Anche Nostro Signore cambiò nome di Simone in Pietro, affidandogli il compito di pascere il suo gregge dopo il ritorno al Padre. Quindi, “farsi un nome” significa: usurpiamo a Dio le sue prerogative, e decidiamo da soli quali strade prendere e quali leggi seguire. Per questo Dio li disunì, facendo in modo che non si comprendessero gli uni gli altri: “divide et impera”; incomprensione che dura ai nostri giorni, eccezion fatta per l’episodio di Pentecoste dove tutti intendevano nella propria lingua le parole degli Apostoli: unico momento nella storia dove Dio, inviando lo Spirito come promesso dal Figlio, ha sospeso temporaneamente la punizione affinché l’annuncio della vittoria di Cristo su satana e la morte risuonasse da un angolo all’altro della terra ed attraversasse i secoli.
Superbissimo e smanioso di gloria, fozio fu il grande protagonista dello scisma d’oriente, che perseguì a scopi “carrieristici”. nonostante ciò, come mostra l’icona, è venerato quale santo patriarca dalla chiesa ortodossa
Guardiamo ora alla storia della Chiesa: tutti gli scismi hanno avuto come causa prima la superbia. Fozio, a cui va fatto risalire l’inizio delle divisioni tra le Chiese d’Occidente e d’Oriente, era uomo di cultura vastissima e di vasto ingegno: prova ne sia la sua “Biblioteca”, raccolta in epitomi della letteratura greca e bizantina, “l’opera più importante di storia letteraria del Medioevo” secondo il Krumbacher. Però era divorato dall’ambizione, e nulla lasciò di intentato pur di sedere sulla cattedra patriarcale di Costantinopoli: ingraziatosi l’imperatore Michele III sino a diventare primo segretario della cancelleria imperiale, quando questi depose il legittimo patriarca Ignazio lo chiamò a succedergli benché laico. Vuoi perché conoscevano l’uomo, vuoi perché fosse illegittima la deposizione di Ignazio, non si trovò un vescovo che volesse consacrarlo; si andò a ripescare l’ex metropolita di Siracusa, Gregorio, destituito da Ignazio e sospeso da papa Benedetto III. Fozio, per restare in sella in condizioni così precarie, poteva sperare solo nell’appoggio imperiale, e sapeva come conservarlo: nonostante in Bulgaria vi fossero inviati da Roma che operavano alacremente per la conversione di quel popolo, egli inviò missionari greci per stabilirvi così una supremazia non tanto spirituale ma soprattutto politica filo-bizantina sulla corte bulgara e lo zar Boris I. Questi li scacciò, preferendo i missionari occidentali: allora il patriarca, prendendo a scusa la questione del “Filioque”, scomunicò il Pontefice nell’867. Egli, per i propri interessi, non si curò del comando di Dio dato a Pietro: “Su questa pietra fonderò la mia Chiesa”, né della sua preghiera “che siano una cosa sola”; per perseguire i propri obiettivi non si curò né della Sua Parola, né della Sua volontà.
Il laico Messico riserva un democratico trattamento ad un sacerdote durante la Cristiada
Lutero fece lo stesso: insuperbì a tal punto da ritenere se stesso puro, e la Chiesa peccatrice; tale fu la sua superbia che reinterpretò San Paolo e Sant’Agostino a proprio uso e consumo, ben sapendo che l’interpretazione delle Scritture è prerogativa della Chiesa. Cosa aspettarsi di buono da un uomo così incancrenito nella presunzione di potersi sostituire a Dio, e scegliere (“haeresis”, in greco) cosa fosse giusto e cosa no della Legge e della Parola di Dio? Nulla: per irrobustire la sua eresia e renderla gradita ai principi, arrivò ad esortarli a combattere i contadini, che si erano rivoltati a causa delle sue idee: «Che ragione c’è di mostrare clemenza ai contadini? Se ci sono innocenti in mezzo a loro, Dio saprà bene proteggerli e salvarli, se Dio non li salva vuol dire che sono criminali. […] Perciò cari signori sterminate, scannate, strangolate, e chi ha potere lo usi».
Se si passano in rassegna i molteplici orrori della storia umana, vedremo che è la storia di uomini fatta da uomini, che nacquero dalle cause più disparate ed andarono come andarono per le cause più diverse. Eppure tutti questi orrori hanno avuto in comune la superbia: il rinnegamento di Dio, la ribellione alle Sue leggi e – quale logico corollario – le persecuzioni alla vera Fede ed alla Chiesa. Basterebbe citare il Terrore, che costò la vita o la deportazione a 30.000 sacerdoti e ad una moltitudine di religiosi e semplici credenti: si arrivò all’empietà di sostituire Dio con la Ragione. Sostituire Dio! E sì, la storia si ripete come dai primordi…
Beato Otto Neururer. Pagò con la vita l’aver battezzato un prigioniero a Buchewald
Oppure andiamo pure al secolo scorso, il secolo dell’ateismo. L’ateismo, la suprema forma di superbia. La ferma e lucida follia di negare Dio aprì il secolo con la rivoluzione bolscevica: solo nella Chiesa greco-cattolica ucraina, 8 dei 10 vescovi morirono nei gulag; Trotsky fece personalmente massacrare 28 vescovi e 1200 sacerdoti. D’altronde Bucharin già nel 1919 aveva dichiarato: “la religione e il comunismo sono incompatibili sia in teoria che in pratica”. Il secolo proseguì con la follia delle leggi Calles in Messico: chiusura delle scuole cattoliche e dei seminari, espulsione dei sacerdoti stranieri e numero chiuso per quelli messicani, divieto di celebrare la Messa ed i Sacramenti. Sino al ridicolo di vietare espressioni quali “se Dio vuole”. La lotta dei “Cristeros” costò la vita ad 85.000 cattolici. Citiamo infine, perché ancora troppo poco nota, la posizione del nazismo verso la Chiesa: come emerse dal processo di Norimberga, Hitler chiamava l’annientamento della Chiesa cattolica “l’ultimo grande compito”. Basterebbe citare padre Kolbe, ma è fin troppo noto: ricordiamo allora il beato padre Neururer, lasciato morire a testa in giù per la terribile colpa di aver battezzato un prigioniero a Buchenwald; o il beato padre Gapp, ghigliottinato nel 1943. Disse Giovanni Paolo II nell’omelia per la loro beatificazione: “Padre Gapp recò la propria testimonianza con la forza della Parola coraggiosa e della profonda convinzione come fra l’ideologia pagana del nazionalsocialismo e il cristianesimo non si potesse giungere ad alcun compromesso. In questa contrapposizione vide, a ragione, una lotta apocalittica. Sapeva da che parte stare e per questo venne condannato a morte.” Dalla caduta di Lucifero siamo arrivati ai giorni nostri. Ma l’abominio continua.
E infine fu come in principio
Un moderno grattacielo che sorge dall’antica torre. Passano i secoli non il peccato. « Il re di Babilonia sarà deriso con questa canzone: […] Avevi deciso di scalare il cielo e di porre il tuo trono sulle stelle più alte Pensavi di sedere come un re sulla montagna di settentrione dove si radunano gli dei Volevi salire in cielo, oltre le nuvole, per diventare simile all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso! » (Isaia 14,4-17)
Oggi più che mai il padre della menzogna sussurra all’orecchio degli uomini. Egli però sa che il suo più grande inganno è far credere di non esistere: davanti ad un nemico palese, ci si arma e ci si prepara. Ma con uno occulto, c’è poco da fare; se poi è mascherato da amico, è davvero difficile individuarlo.
Il dragone infernale oggi si maschera da amico dell’uomo, da filantropo: e pungola l’uomo di nuovo alla ribellione. Che il piano sia suo, e che stavolta l’attacco sia totale, lo si capisce dalle dimensioni del fenomeno: non è più un partito, un pezzo di nazione o qualche potere a rinnegare Dio, le sue leggi e la sua volontà. Interi continenti sono pervasi da una folle superbia, come al tempo della torre di Babele; in particolare l’Occidente, che tutto deve alla civiltà cristiana, pare essersi abbandonato nelle braccia di questi sussurri mortiferi.
Li sentiamo risuonare ogni giorno, ogni istante: e a furia di sentirli, sempre più persone si arrendono intontite da un martellamento che non ha eguali, conformandosi alla moderna versione del pensiero unico. Quali sono questi sussurri? I soliti, solo riverniciati per farli sembrare nuovi: “tu non hai bisogno di Dio! Tu sei Dio! Ciascun uomo deve decidere da solo ciò che è bene e ciò che è male! Rispetto per tutti, noi vogliamo bene a tutti: non siamo come la Chiesa, che fomenta l’odio! Lei è l’ultimo ostacolo al progresso civile! Come osa intromettersi nelle cose civili? Ci intromettiamo forse noi nelle cose sue? Dicano le loro preghiere in chiesa o in casa loro, ma non mettano fuori il naso! I loro simboli sono una violenza inaccettabile per chi non crede: i loro crocifissi, i loro campanili, le loro processioni ed i presepi! Via! Via!” Siamo solo all’inizio della discesa, eppure vediamo sotto i nostri occhi la follia dilagante: interi popoli, accecati dalla superbia ed impestati dal mefitico alito diabolico, abbattono e sovvertono una dopo l’altra le leggi di Dio, e lo rinnegano apertamente. Sotto gli occhi di un clero che talvolta sembra sbandare, anch’esso travolto; in taluni casi addirittura si rende complice della ribellione a Dio: non è una novità, Nostro Signore è stato venduto per 30 denari, figuriamoci quando in ballo ci sono milioni.
L’uomo rialza la testa come a Babele, ed innalza le sue torri per spodestare Dio. Le innalzerà sempre di più, calpestando tutto ciò che è sacro; già iniziano anche le discriminazioni, che sempre precedono le persecuzioni: il governo inglese nel 2012 si è opposto all’appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo da due lavoratrici inglesi, licenziate perché indossavano una catenina con un crocifisso durante l’orario di lavoro. I presepi scompaiono, i crocifissi sono rimossi, le chiese ed i cimiteri profanati; l’abominio viene spacciato per “diritti civili”, ivi compresa la possibilità di fare dei bambini un osceno mercato del bestiame.
Già, i bambini, il futuro dell’umanità. Nei Paesi scandinavi vengono invitati fin dall’asilo a scambiarsi i vestiti con quelli dell’altro sesso, per educarli alla parità di genere. Con buona pace di chi “maschio e femmina li creò”. Dal 2014 in Belgio è legale l’eutanasia per i minori, di qualunque età. D’altronde nel 2012 il Journal of Medical Ethics pubblicò un articolo esauriente in merito:
“nei Paesi dove è permesso l’aborto perché non consentire anche l’infanticidio, dato che né il feto né il neonato hanno ancora lo status morale di persona? […] Se i criteri come i costi (sociali, psicologici ed economici) per i potenziali genitori sono buone ragioni per avere un aborto anche quando il feto è sano, se lo status morale del neonato è diverso da quello del bambino e se non ha alcun valore morale il fatto di essere una persona potenziale, le stesse ragioni che giustificano l’aborto dovrebbero anche giustificare l’uccisione della persona quando è allo stadio di un neonato”.