Family Day. O del perché nessuno ha sentito la mancanza dei vescovi. Nemmeno di quello di Roma. Lo scollamento fra i cattolici e le gerarchie.
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di Marco Sambruna
Di questi tempi si sperimenta una strana sensazione: è come se il papato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI fossero lontanissimi nel tempo, quasi appartenessero a un’altra epoca storica.
E’ come osservare un quadro del Rinascimento sullo sfondo di un panorama industriale: il soggetto è completamente decontestualizzato rispetto allo sfondo e l’osservatore ne ricava sensazione di disorientamento straniante. In occasione del Family Day si è avuta l’impressione che il soggetto principale della rappresentazione – la famiglia naturale – fosse avulso rispetto allo scenario retrostante così tetro e silenzioso da apparire nettamente incoerente con i colori e i rumori della manifestazione di piazza gremita di famiglie.
La differenza fra l’atonia dello sfondo e la tonicità del soggetto è tale che pare inconcepibile che quello sfondo possa avere una relazione con quel soggetto.
Su quello sfondo peraltro si staglia la sagoma inquietante di qualcosa di anonimo e impenetrabile come accade in certi quadri di Mario Sironi in cui, ad accentuare il senso di oppressione, c’è una presenza misteriosa e indecifrabile: un palazzo sordo e grigio con le finestre simili a vani oscuri di cui si intuisce l’intima natura rappresentativa che è quella di una solitudine ostinata e ostile.
Il Palazzo dunque che si erge alle spalle del Family Day appare pressoché disabitato, o meglio abitato solo da qualche solitario inquilino completamente isolato dal resto della scena. Solitari, un po’ ostili e stizzosi i pochi e sparuti condomini guatano dalla finestra l’assembramento che accade nella piazza di sotto; decidono allora di convocare a Palazzo quelli che sembrano agitarsi troppo per ricordare loro la prima delle ferree norme del regolamento condominiale la cui giurisdizione riguarda anche la piazza sottostante: niente schiamazzi che possono disturbare.
Forse per questo i leader della manifestazione di sabato si sono limitati a qualche timido saluto ai partecipanti senza esprimere alcun ragionamento articolato: l’amministratore condominiale tramite qualche suo portavoce ha ricordato loro che nel Palazzo i perturbatori della quiete non sono graditi. Quindi è meglio fare silenzio.
Il Fantasma
Un fantasma sabato 30 gennaio aleggiava al Circo Massimo: il fantasma dell’assenza della CEI e dei suoi vescovi, compreso quello di Roma.
Assenza, beninteso, non solo fisica, ma anche mediatica: infatti la chiesa odierna così attenta a catturare il focus televisivo stranamente non ha avvertito l’esigenza di inviare un messaggio di solidarietà ai partecipanti del Family Day che pure ha ricevuto ampia copertura mass mediatica evidentemente anche, ma non solo, con letture riduzioniste.
Perfino alcuni imam islamici hanno voluto idealmente partecipare alla marcia romana inviando i loro auspici agli organizzatori; perfino alcune associazioni di lesbiche si sono schierate decisamente contro l’adozione perché spalancherebbe le porte all’odiosa pratica dell’utero in affitto, la commercializzazione consumistica del ventre delle donne, specialmente se povere.
Alcuni ambienti cattolici hanno invocato quale pretesto della loro assenza il fatto che il DDL Cirinnà, fatto salvo lo stepchild adoption, non prevede l’adozione per le coppie omogenitoriali anche se di contro pare essere prevista una sorta di affido esteso, tale da accostarsi alla fattispecie dell’adozione.
Tuttavia ciò che preoccupa maggiormente è una sorta di effetto domino che una volta avviato difficilmente si potrà fermare.
È venuta a mancare all’affetto…

Le due teste… della CEI. In genere l’uno smaglia il lavoro dell’altro. Galantino, colonnello di Bergoglio e Bagnasco presidente della Cei
Detto questo da parte della gerarchia, degli organismi e dalla stampa ufficiali vaticani, sia prima che dopo l’evento è giunto solo qualche querulo e sommesso sospiro di decenza a ricordare la manifestazione. Vagolanti gemiti mormorati a mezza voce simili a quelli che si odono nei corridoi gelidi di un obitorio.
Sabato pomeriggio, con l’eccezione del vescovo di Campobasso monsignor Bregantini e forse nessun altro, in piazza gli esponenti della gerarchia cattolica erano completamente assenti non solo fisicamente e quindi direttamente, ma anche simbolicamente e quindi indirettamente.
La presenza CEI tuttavia è stata garantita proprio dalla sua assenza: la presenza di un assenza tanto più fragorosa in quanto silenziosa e che, ci si sarebbe aspettati, avrebbe dovuto suscitare l’amarezza, le critiche, la delusione del popolo cattolico riunito a Roma per il Family Day.
E invece niente: da parte dei manifestanti non una parola sulla presenza di quell’assenza, non una lamentela sul men che blando appoggio del vescovo di Roma, non un accenno ai monsignori che hanno disertato la manifestazione, nessun riferimento alla gerarchia da parte della gente intervistata, nessun accenno polemico, nessuna allusione dagli striscioni e cartelli vari agitati durante la manifestazione.
Quella presenza – assenza è stata completamente ignorata dal popolo cattolico come se la Chiesa fosse qualcosa di estraneo e di inutile se non addirittura controproducente per la causa della famiglia naturale ancor prima che tradizionale.
Lo scollamento fra i cattolici e la Chiesa bergogliana è così evidente che ormai perfino l’amarezza e il senso di delusione sono bypassati all’insegna di uno slogan silenzioso che per vie misteriose si è radicato nella mente e nel cuore di credenti e non credenti che difendono la famiglia cristianamente intesa: “rimbocchiamoci le maniche e facciamo da soli perché tanto dalla chiesa bergogliana non dobbiamo aspettarci nulla”.
Claptocrazia clericale
L’oblio di quella presenza – assenza non è un buon segnale per la gerarchia claptocratica fondata sull’applauso: riceve solo qualche altezzoso cenno di assenso da chi è fuori di essa, mentre è percepita con la massima indifferenza da chi si riconosce nella sua dottrina.
Una gerarchia che si illude di godere, grazie alle amplificazioni mass mediatiche, di un seguito oceanico fra i cattolici, ma che in realtà interessa prevalentemente e per mero calcolo ideologico appena qualche drappello intellettualoide e alcuni aggregati di yesmen che applaudono solo a causa di un riflesso condizionato di marca pavloviana.
Una frazione di Chiesa lasciata indietro e superata non perché non più al passo con la modernità relativista alla quale anzi sembra volersi adeguare, ma perché lontana dal cuore della gente, ossia percepita ormai come inutile, controproducente e come tale marginalizzata ai confini della storia che si fa carne, che si schiera e che rischia se stessa in un’ idea, quello della famiglia naturale, che non è semplicemente un progetto, ma un fondamento senza il quale si avvia una mutazione antropocentrica che è anche una mutilazione antropologica destinata a sfociare verso un imponderabile dai tratti tenebrosi: già si comincia a parlare infatti di leggi sulla poligamia e sulla poliandria.
Rigor mortis
Sabato 30 al Circo Massimo si è celebrato contemporaneamente un funerale e un battesimo: accanto alle esequie del cadavere di una parte della Chiesa congelata dal gelido abbraccio dei machiavellismi cui si è consegnata, irrigidita nel rigor mortis del suo moralismo conformista e autoritario veicolato dai proclami sovietizzanti in cui prevale l’idea che non legale ciò che è etico, ma è etico ciò che è legale, aleggiava infatti lo spirito di una Chiesa che vuole agire come soggetto dotato di una propria identità ontologica che non è animata da alcuna ansia di rinnovamento rivoluzionario che altro non è se non l’adeguamento conformista.
Una Chiesa che vuole parlare in termini di “si, si, no, no” e non più in termini di “ni, ni, etc., etc.” dove a quell’etc, etc. è possibile far seguire tutto e il contrario di tutto.
Ma grazie a Dio, lo Spirito non solo soffia dove vuole e come vuole, ma anche presso chi vuole, vale a dire, se necessario, anche senza ricorrere a intermediazioni gerarchiche.
Al Circo Massimo due chiese si sono confrontate: quella che c’era, palpabile e visibile nella sua materialità fatta di persone e volti che possiamo perciò definire come “chiesa reale” nel senso etimologico del termine che indica qualcosa di concreto e dotato di una sua densità di contro a quella che non c’era né fisicamente, né simbolicamente, ossia una chiesa priva di consistenza materiale, fantasmatica, ma che, nonostante ciò, si offre come rappresentativa del cambiamento, dell’innovazione e che sembra conformarsi perciò a uno dei più noti slogan collettivi manipolatori e truffaldini, il “nuovo che avanza” dove con quel “nuovo” si tenta sempre di connotare positivamente ciò che avanza o vorrebbe avanzare.
Tuttavia dopo la giornata del Family Day che ha sigillato col marchio dell’indifferenza la presenza – assenza della chiesa evanescente che vorrebbe qualificarsi come “nuovo che avanza”, il “nuovo” che si illude di essere tale perde la maschera e si rivela per quello che è ossia la riproposizione di un vecchio schema operativo contrabbandato come novità: il rifiuto cioè di sostenere apertamente la mobilitazione rivela il meccanismo di una stantia e vetusta prassi di dialogo che quasi sempre consiste nell’ autodenigrare la propria storia per incensare quella altrui, oppure, più precisamente, nell’autodemolire ciò che si è sempre difeso per riabilitare ciò che si è sempre avversato.
E non c’é dubbio che all’interno della propria storia la chiesa abbia sempre riservato un posto di primo piano alla famiglia naturale.
La messa a nudo dell’antico e polveroso schema le cui origini risalgono all’immediato post concilio, rivela così il vero volto della chiesa progressista e rivoluzionaria che di nuovo ha ben poco: il “nuovo che avanza” ha in realtà la fisionomia di un “vecchio che arretra” costretto per sopravvivere a ridursi a mansioni servili di rinforzo alla dittatura radical chic del conformismo borghesuccio con tanti saluti al poverismo liturgico, dottrinale e pastorale talvolta ostentato con orgoglioso e quindi narcisistico snobismo.
Non una chiesa povera, ma una povera chiesa
Tuttavia se la chiesa del “nuovo che avanza” di nuovo ha ben poco sul piano della prassi operativa, questo non significa che non presenti elementi di novità.
La vera novità della chiesa che segnala la sua presenza tramite un’assenza è che riesce a comunicare sue notizie solo tramite la totale mancanza di nuove notizie e quindi comunica solo la sua incapacità di comunicare. L’attuale chiesa infatti che vorrebbe essere “una Chiesa povera per i poveri” in realtà è certamente una chiesa povera, ma non solo per i poveri, bensì per chiunque: è una chiesa povera se non addirittura misera non solo dal punto di vista materiale, degli orpelli, dei paramenti e dell’arredo sacro, ma è anche e soprattutto una chiesa povera di notizie o se si preferisce di buone novelle; così povera di notizie o di buone novelle che di fatto non avendo più alcuna buona novella da trasmettere riesce a segnalare la sua presenza solo tramite la sua assenza fisica e simbolica e a comunicare in definitiva solo la sua incapacità di comunicare, cioè la sua incapacità di trasmettere qualcosa che gli appartenga in modo originale.
In altre parole è una chiesa che si presenta a mani vuote perché non ha più nulla di proprio da trasmettere cioè da offrire: in questo senso possiamo dire senz’altro che questa chiesa è povera, anzi poverissima o miserrima. E non avendo nulla da offrire perché ha rinunciato all’originalità della sua trasmissione, ossia la verbalizzazione della buona notizia o novità per eccellenza, per segnalare la sua esistenza in fondo può fare solo quello che fa: prendere a prestito da qualcun altro un sottoprodotto succedaneo della novità che ha perduto, cioè sostituire l’impossibilità di trasmettere la buona novella che storicamente ha sempre trasmesso con la comunicazione di notizie di seconda mano.
Perché infine se la chiesa oggi non trasmette più nuove notizie non significa affatto non comunichi più nulla: semplicemente anziché trasmettere cioè tramandare, comunica cioè condivide una funzione. La vera rivoluzione che ha subito la chiesa attuale riguarda quindi il suo linguaggio, cioè il suo modo di relazionarsi col mondo: non potendo più trasmettere la buona novella può solo comunicare qualcosa che sa di rimasticato e di già sentito cioè che di nuovo non ha nulla: il rumore sociale e la cronaca spiccia prodotti dai mass media.
Ecco qui un maggiordomo un po’ attempato in un salotto di prestigio che si sforza di apparire disinvolto per non rischiare di perdere il posto.
E con l’incarico di spegnere la luce quando tutti sono usciti.