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Il prete non deve puzzare di pecore, ma profumare: di Cristo

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Il prete non deve puzzare di pecora, ma deve portare alle pecore il buon profumo di Cristo. Deve essere quel pezzo di cielo che testimonia la presenza divina e ne indica la purezza ed eternità, verso la quale tutti i credenti sono chiamati.  Se un sacerdote puzza di pecora significa che fa le stesse cose delle pecore, ma a questo punto, i fedeli, invece di vedere nel prete un richiamo alla legge di Dio, vedono qualcuno che si confonde con loro ma che pretende rappresentare Gesù Cristo e il suo insegnamento. Il risultato sarà che i fedeli inseguiranno il prete non per avere la remissione dei peccati a seguito della conversione e della contrizione, ma una sorta di giustificazione al peccato, per poi rifiutarlo come inutile orpello, perché, tanto, ognuno può continuare a fare quel che gli pare. E, così, ci si è giocato quell’ “in remissione dei peccati” che è il fine dei fini della vita e della missione sacerdotali.

Appunti sull’esperienza della formazione al sacerdozio cattolico

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padre francesco solazzo passionistadi P. Francesco Solazzo, passionista

Nel celebrare i 50 anni della promulgazione dei documenti conciliari Presbyterorum Ordinis e Optatam Totius, il Papa ha pronunciato un discorso sulla formazione al sacerdozio dei seminaristi. In questo discorso il Papa ha iniziato la sua riflessione da una frase della Presbyterorum Ordinis, al n. 3 in cui si dice che i sacerdoti sono uomini « presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati, vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli ». Ed ha considerato « questi tre momenti: “presi fra gli uomini”, “costituiti in favore degli uomini”, presenti “in mezzo agli altri uomini” » per muovere una critica ai criteri di ammissione dei seminaristi all’Ordine sacro.

Rimproverare di continuo non serve

Fa bene a tener alta l’attenzione, però come ogni educatore sa, incentrare la formazione sul rimprovero e sul continuo richiamo significa fare in modo che, in breve, tutto ciò che il formatore dirà entrerà da un orecchio dell’educando ed uscirà dall’altro: è fisiologico che succeda, non può essere diversamente! Ed infatti questo discorso del Papa non lo avrei notato se qualcun altro non mi ci avesse richiamato l’attenzione.

Leggendo attentamente gli spezzoni della frase scelta, si noterà come tutti contengano la parola “uomini”; infatti, l’intero discorso del Papa si incentra sulle caratteristiche dei candidati. Per carità: è giusto che sia così! Cioè che parli delle qualità umane. Anche. Ma, dato il tema toccato, ossia il sacerdozio cattolico, ci si aspetterebbe che parlasse anche riguardo le altre parole contenute nella frase citata, cioè quando dice « nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati ». Queste parole, infatti, si riferiscono al fine per il quale è stato istituito il sacerdozio. Se consideriamo poi che il sacerdozio è stato istituito da Gesù, ancor di più ci si attende che il suo Vicario ne parli diffusamente. Nella mia insignificanza, dunque, cercherò io di trattare dell’argomento.

Il primo seminario è la famiglia

12112344_1197455573614168_8837092535168931831_nLa vocazione al sacerdozio nasce, nella maggior parte dei casi, in famiglia. È lì che si respira il clima di fede che avvicina al Signore e rende pronti ad ascoltarne la voce. Per seguire la propria vocazione, però, bisogna uscire dalla famiglia e dalla casa in cui si è cresciuti; bisogna abitare una nuova casa (che sia il seminario della Diocesi o il convento di un istituto religioso), farsi guidare da persone che non sono più i propri genitori; bisogna imparare il modo specifico in cui il sacerdote è chiamato a donarsi agli altri e, infine, imparare come continuare ad essere un sacerdote una volta che questo periodo di formazione è finito.

Abbiamo già ricordato come i sacerdoti siano uomini « presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio ». Nel seminario, o nella casa di formazione di un istituto, ciò che si impara, dunque, sono “le cose che si riferiscono a Dio”, perché sono il contenuto immediato della formazione, ciò che un giorno costituirà il “pane quotidiano” del prete, il suo lavoro e la sua missione.

Dimitte nobis debita nostra

430949_4552011670616_1432000188_nPoi c’è un contenuto meno immediato e di più ampio orizzonte e che costituisce il fine per il quale il sacerdozio è istituito che, nel documento conciliare, è espresso da quel “per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati”. Nella celebrazione eucaristica l’offerta dei doni è manifestata dall’offertorio, mentre con la frazione durante l’Agnus Dei il sacerdote rinnova il sacrificio di Cristo sulla Croce. E come all’interno della Messa il sacerdote agisce come alter Christus, così anche al di fuori della celebrazione egli è chiamato ad agire come alter Christus, ma qui non più in modo rituale, bensì con tutta la propria vita in cui, momento per momento, egli è chiamato ad offrire tutto quanto possiede di suo (cuore, mente, corpo) come un dono a Dio per i fratelli, ad imitazione di come fece Cristo durante tutta la sua vita sulla terra.

La P.O. continua dicendo “in remissione dei peccati”: qui sta il fine dei fini della vita e della missione sacerdotali. L’uomo è ineluttabilmente segnato dal peccato che è più forte di lui, ma non più forte di Dio. Per questo ogni offerta e ogni sacrificio non avviene se non “pro innumerabilibus peccatis, et offensionibus, et negligentiis meis, et pro omnibus circumstantibus, […]: ut mihi, et illis proficiat ad salutem in vitam aeternam” (per gli innumerevoli peccati, offese e negligenze mie e di tutti i presenti… affinché per me e per loro sia di giovamento per la salvezza nella vita eterna). Le parole del sùcipe dell’offertorio della Messa tridentina esprimono alla perfezione tutto il senso del sacerdozio cattolico. Peccato che siano sparite dal messale attuale!

Separato da tutti per essere più unito a tutto

1620962_10202786915894895_865476728_nQuesta assoluta particolarità del sacerdozio cattolico fa sì che il ministro chiamato debba vivere, giocoforza, una separazione dal resto del popolo di Dio; separazione che non significa affatto lontananza, ma, anzi, essa ne esalta la vicinanza e, al contempo, manifesta anche la separazione e la prossimità di Dio. Per comprendere questo passaggio potremo far riferimento alla preghiera insegnata da Gesù. Questi chiama Dio “Padre nostro che sei nei cieli”: ora, il cielo indica una separazione, perché ciò che è assolutamente puro ed eterno è necessariamente separato da ciò che è segnato dal peccato e dalla morte. Nello stesso tempo, però, il cielo sta sempre sopra di noi e basta alzare lo sguardo per vederlo, quindi indica la costante prossimità di Dio all’uomo e alla sua storia.

Nella formazione sacerdotale, quindi, il candidato, mentre è chiamato sempre alla gratitudine verso chi gli ha donato la vita e la fede, nel tempo stesso è chiamato a staccarsene definitivamente, poiché quella stessa famiglia e quello stesso ambiente che lo ha generato fanno parte di quel mondo che da sacerdote avrà il dovere di evangelizzare e salvare mediante il Sacrificio di Cristo e il sacrificio suo. Solo questa separazione consentirà al sacerdote di essere autenticamente “in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio”.

Il seminarista, dunque, deve tagliare il cordone ombelicale, e non solo, abbiamo visto, per un fatto di mera maturità umana, ma per una intrinseca necessità del ministero sacerdotale cui è chiamato. Ecco perché nel titolo ho richiamato le parole del Salmo 45,11b-12: «dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; al re piacerà la tua bellezza. Egli è il tuo Signore: pròstrati a lui». Sembra un paradosso: perché Dio si ricordi del popolo deve essere il sacerdote a dimenticarsene, perché a Dio sia gradito il popolo deve essere il sacerdote a piacere a Dio! Il sacerdote, dunque, con la sua sola presenza, deve testimoniare la signorìa di Dio, dinanzi alla quale egli è il primo dei fratelli a prostrarsi.

Più che puzzare di pecora, profumare di Cristo

1484235_1405602676350434_1605204914_nI sacerdoti, continua successivamente la P.O., “vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli”. A questo punto, però, abbiamo già visto che il suo modo di stare fra gli uomini è quello del separato dagli uomini e non confondersi con essi. Per usare un’immagine molto in voga, il prete non deve puzzare di pecora, ma deve portare alle pecore il buon profumo di Cristo. Deve essere quel pezzo di cielo che testimonia la presenza divina e ne indica la purezza ed eternità, verso la quale tutti i credenti sono chiamati.

Se un sacerdote puzza di pecora significa che fa le stesse cose delle pecore, ma a questo punto, i fedeli, invece di vedere nel prete un richiamo alla legge di Dio, vedono qualcuno che si confonde con loro ma che pretende rappresentare Gesù Cristo e il suo insegnamento. Il risultato sarà che i fedeli inseguiranno il prete non per avere la remissione dei peccati a seguito della conversione e della contrizione, ma una sorta di giustificazione al peccato, per poi rifiutarlo come inutile orpello, perché, tanto, ognuno può continuare a fare quel che gli pare. E, così, ci si è giocato quell’ “in remissione dei peccati” che è, come abbiamo ricordato più sopra, il fine dei fini della vita e della missione sacerdotali.

Tutte le vocazioni sono “malate”

Un’ultima cosa vorrei dire: guardando alla concreta realtà dei seminari e di tutte le case di formazione, dobbiamo prendere atto come in effetti essi siano una “calamita per psicopatici” [così il papa, recentemente ha detto, in un discorso ndr], da un versante, e smidollati, dall’altro. Da parte mia, però io tengo anche presente quel che diceva il mio maestro di noviziato: che tutte le vocazioni sono “malate”. Con quel “malate” intendeva dire che c’era sempre qualcosa che non andava, qualcosa da sistemare nel formando. In fondo nessuno intraprende un cammino di discernimento vocazionale se non è certo che ogni chiamata viene da Dio. Perché la stessa vocazione, qualunque essa sia, è il modo in cui Dio ti offre la salvezza, la guarigione da te stesso e da ciò che ti separa da Lui.

Teniamo bene a mente, infatti, che i primi peccati da rimettere sono quelli di noi preti che viviamo come peccatori fra i peccatori. Chi ama veramente vorrebbe la persona amata perfetta, non per sé, ma per il bene dell’amato stesso; infatti Dio, che ci ama in modo perfetto, per noi vuole l’assoluta purezza (i puri di cuore, infatti, vedranno Dio). Così il sacerdote che arderà d’amore per i fratelli riuscirà ad essere misericordioso con gli altri quanto più sarà intransigente con se stesso, perché l’amore ti porta a caricare sul tuo spirito le colpe dei fratelli, a imitazione di ciò che fece Cristo caricandosi della Croce. Questa è la lezione dei grandi santi del confessionale, come, per esempio, furono S. Pio da Pietrelcina e S. Leopoldo Mandich o il Fondatore di noi Passionisti S. Paolo della Croce.


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